l voto nel Regno Unito ripropone la questione dell’avanzata delle destre in buona parte del mondo occidentale.
Come ricorda il capo della redazione economica della BBC, Faisal Islam, adesso Boris Johnson deve risolvere tre questioni molto complesse: quella delle relazioni commerciali con l’Europa, partner principale dei britannici, quella dello scambio con gli Stati Uniti, che dovranno mantenere fede ad un mare di promesse, soddisfare il proprio elettorato.
Vedremo come il Primo ministro britannico riuscirà a fare fronte agli impegni assunti superando quelle politiche oggettivamente di destra che hanno allargato la forbice tra ricchi e poveri, portato pesanti colpi allo Stato sociale, messo in gravi difficoltà il ceto medio e i gruppi sociali intermedi, seminato disoccupazione e precariato.
Il paradosso sta proprio in questo: le politiche di destra e la finanziarizzazione hanno sconquassato l’economia reale, indebolito le famiglie, emarginato il ceto medio e, nonostante ciò, la destra con venature populiste ed estremiste vince quasi dappertutto.
Sembra che l’opinione pubblica non vada al fondo delle responsabilità e finisca per esserne vittima due volte. Capita! In Italia ci siamo per il momento salvati solo grazie ai limiti strategici e tattici di Matteo Salvini che, al di là delle apparenze mediatiche, ha subito sconfitte importanti in Europa e in Italia.
In ogni caso, la reazione incerta e balbettante della sinistra tradizionale non delinea una possibile alternativa. Anzi. Nel nostro Paese, la crisi profonda in cui essa è precipitata aumenta i dubbi al riguardo e rende necessaria una ristrutturazione del quadro politico cui è indispensabile l’inserimento di forze nuove e fresche.
Le “sardine” possono rispondere allo scopo? Dopo tre giorni saranno ancora commestibili o, come tante fiammate movimentiste finiranno per spegnersi, magari il giorno dopo i prossimi appuntamenti elettorali regionali?
Quello che abbiamo ascoltato a Roma, a Piazza San Giovanni, non è sufficiente a rispondere al quesito. Non è certo che ci si trovi del tutto di fronte ad una cosa davvero spontanea e che non sia eteroguidata. In ogni caso, dev’essere registrata una vaghezza e una pochezza di proposta politica che non fanno assolutamente ben sperare. Ha ragione Domenico Galbiati ( CLICCA QUA ): se sono rose fioriranno.
In molti casi l’avanzata della destra nei paesi occidentali è favorita dal sistema elettorale maggioritario adottato in molti paesi, a partire da Stati Uniti e Regno Unito. Il tecnicismo politico, però, non può far sottovalutare la dimensione antropologica del fenomeno.
Possiamo dire che i due aspetti interagiscono tra di loro e la cosa aumenta gli ostacoli a dare corso ad un’inversione del moto del pendolo diretto verso una destra dalle venature anche radicali. E’ evidente che un punto di snodo importante sarà rappresentato dalle elezioni che tra meno di undici mesi ci diranno se gli Stati Uniti daranno o meno a Donald Trump un secondo mandato.
L’avanzata della destra fondamentalista è favorita dalle difficoltà in cui sono finite le tradizionali correnti d’ispirazione conservatrice, liberal democratica e cristiano liberale.
Sembra al momento non semplice, così, dare vita a formazioni più equilibrate all’interno di un quadro di centrodestra o comunque moderato. In sostanza, quelle che con il socialismo, il popolarismo e il cattolicesimo democratico sono state le espressioni più significative del pensiero politico ed istituzionale per circa un secolo sembrano ora messe ai margini e sostituite da forme meno raffinate, ma più efficaci di proposta politica. Pagano l’incapacità a percepire per tempo le trasformazioni, anche antropologiche, che pur esse hanno inconsapevolmente favorito.
La quasi scomparsa di Forza Italia nel nostro Paese, ma la contemporanea difficoltà dai democristiani tedeschi e del Ppe, molto influenzati dai settori ispirati al conservatorismo tradizionale, lo stanno chiaramente ad evidenziare.
Al tempo stesso, la sinistra non riesce a rigenerarsi. Non appare in grado di formulare una proposta in grado di conciliare il controllo della spesa, e quindi delle tasse, senza che questo limiti l’erogazione di servizi sociali essenziali e impedisca di combattere efficacemente i disagi e la povertà.
Quelle voci che, dal centrosinistra, provano a spostare il baricentro su posizioni più centrali ed inclusive, come dichiarano ad esempio di voler fare Matteo Renzi o Carlo Calenda, soffrono di altri limiti e di altre deficienze che risalgono ai comportamenti assunti negli anni passati. E’ anche evidente la mancanza della capacità di offrire un’alternativa connotata da un autentico carattere popolare.
La sinistra è più che mai inefficace a misurarsi con le complessità che hanno investito le dinamiche civili e sociali. A riconoscere la necessità di rivedere e reinterpretare le finalità e il ruolo della cosa pubblica. Nel trovare il giusto equilibrio nei confronti dei mutamenti degli usi e dei costumi che tanto influiscono sulle relazioni interpersonali.
La sinistra paga un po’ dappertutto, soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in Italia come conferma lo smottamento del voto cattolico e tradizionalista verso Matteo Salvini, la scelta di sostenere tanti nuovi diritti parziali, maturati sulla base di una logica che esalta l’individualismo avulso da una responsabilità collettiva più ampia.
Essa ha privilegiato una deriva radicaleggiante e, facendo ciò, ha snaturato la propria tradizione e smarrito per strada il collegamento con i propri antefatti culturali e i gruppi sociali di riferimento. Registra adesso in termini elettorali e di legami quel diffondersi di un’atomizzazione interna al corpo sociale che ne ha favorito la decomposizione e offre alle destre la possibilità d’individuare una proposta che prima di essere politica è “antropologica”: una visione della vita che per quanto egoistica e limitata, ma forse proprio per questo, è in grado di compattare vaste aree popolari sulla base della paura del domani e di ciò che non è conosciuto o non viene avvertito come prossimo.
Molto del voto confluito su Trump negli Usa, ma su Salvini, Orban e Johnson in Europa, trova in tutto ciò una parte consistente delle motivazioni.
La sinistra è stata contemporaneamente incapace a dare corso ad una politica economica e del lavoro in grado di tener conto dell’emergere e consolidarsi di nuovi rapporti all’interno dell’impresa e dei luoghi di lavoro.
Il mondo del lavoro è cosa più complessa rispetto a ieri. In ciò influiscono la nascita di nuove professioni e di nuove attività. Grazie alla globalizzazione e all’impetuoso sviluppo tecnologico ci si deve misurare con le delocalizzazioni, con la robotica e l’applicazione dell’intelligenza artificiale. Non si parla più di solo lavoro materiale. Non sempre esiste un forte collegamento tra luogo di lavoro ed esercizio dell’attività lavorativa, al punto che muta il concetto e il concretizzarsi del rapporto subordinato. La disoccupazione, cosa di cui non tengono conto i relativi strumenti giuridici, non è più episodica, ma strutturale. Tutto ciò ce l’ha appena ricordato Giulio Prosperetti ( CLICCA QUI )
Sono in atto una precarizzazione del lavoro e una trasformazione delle relazioni tra le componenti interne all’impresa, dalla più grande al più piccolo degli esercizi commerciali che vanno avanti con finti contratti di praticantato o stagionali. Le forze di sinistra e i sindacati hanno difficoltà ad instaurare una moderna relazione con le professioni autonome, con la piccola e media impresa, con il crescente mondo del precariato e dei disoccupati. Persino nell’imporre il rispetto delle norme che pure dovrebbe impedire nuove forme di “schiavitù” cui sono sottoposti i più deboli tra i lavoratori, a partire dai giovani alla ricerca della prima occupazione.
Come il centrodestra moderato, anche la sinistra appare “vecchia” e stanca. Entrambe si abbarbicano a logiche di potere e di salvaguardia di posizioni acquisite, cosa che le fa apparire ancora più distanti dalle dinamiche civili e sociali del nostri giorni.
Quasi dappertutto, negli Stati Uniti e in Italia, ma anche nel Regno Unito, i risultati elettorali rivelano come la destra riesca meglio ad interpretare i sentimenti di quanti vivono al di fuori dei centri cittadini, soprattutto nelle grandi aggregazioni metropolitane. All’opposto che nel passato, l’umanità costretta nelle periferie, nei ghetti, nelle zone più esterne ai dilatati nuclei urbani la preferisce e la vota. Soprattutto la destra con le connotazioni più radicali. A dispetto del fatto che, proprio là dove il disagio è più profondo, si è sempre ritenuto per antonomasia che il voto dovesse andare obbligatoriamente a sinistra.
Queste le dinamiche che hanno consentito il successo di Donald Trump negli Usa e qualche giorno fa di Boris Johnson nel Regno Unito. In entrambi, i casi la destra repubblicana e quella del conservatorismo britannico sono riuscite a creare delle grandi “coalizioni” sociali formate dai tanto ricchi e dai tanto poveri, da occupati e disoccupati, da chi crede nel liberismo più sfrenato e chi invece attende una ripresa della cosiddetta economia reale.
Poi, entra in gioco l’importanza del sistema elettorale. La questione appare evidente se si guarda al risultato finale del responso britannico e nord irlandese: Boris Johnson vince senza dubbio e guadagna la maggioranza a Westminster, ma i voti dei contrari alla Brexit sono nettamente contro di lui.
I conservatori, infatti, hanno ricevuto 13.966.565 voti. Gli altri, Laburisti di Corbyn, Liberal democratici e Separatisti scozzesi, tutti schierati per il ” remain” o, almeno, orientati ad indire un secondo referendum, hanno complessivamente raggiunto quota 15.234.402. Poi, se si aggiungono i risultati dell’Irlanda del Nord e dei verdi è ancora più che evidente quanto la bilancia avrebbe dovuto pendere dall’altra parte. La conferma che la maggioranza degli elettori britannici non è affatto convinta che l’uscita dall’Unione europea costituisca la miglior scelta.
Gli anti Brexit, chiusi nelle loro rispettive ambizioni, però, non sono riusciti ad organizzare un minimo di quella ” desistenza” che, se ben strutturata, avrebbe sicuramente sovvertito il risultato in termini di seggi.
E qui emerge un’altra delle carenze strutturali di gran parte della sinistra occidentale. Quella fatta, con l’autoreferenzialità, dall’estremismo ideologico, speculare a quello della destra.
Difficile, così, non concordare con le immediate valutazioni del voto britannico da parte del principale sfidante di Trump, il democratico John Biden, già vice presidente di Obama, e di Matteo Renzi. Con sfumature diverse hanno entrambi denunciato la radicalità e la mancanza di realismo della sinistra quali principali motivi della vittoria delle destre.
Gli Usa e il Regno Unito, ma lo stesso ragionamento riguarda anche la Francia, si ritrovano guidati da una ” minoranza” che ha saputo sfruttare sapientemente la conformazione delle circoscrizioni elettorali, le divisioni in campo avverso, l’uso di imponenti finanziamenti delle campagne elettorali e, quindi operare in taluni casi una forma di ” manipolazione” della pubblica opinione puntando ad una semplificazione del messaggio per solleticare le esigenze più immediate e dirette della gente.
Qui si ripropone la questione sollecitata agli inizi: la destra dimostra una capacità di parlare ai singoli e ai gruppi organizzati come gli altri non riescono a fare. Meglio si sintonizza sulle frequenze giuste del malcontento per essere ascoltata da chi è stato abituato a svillaneggiare la politica, a scegliere per i propri risultati immediati invece che quelli utili alla collettività, a ritenere più importante il proprio “ particolare” a scapito di un rafforzamento dei processi democratici e collettivi e dell’aderenza a quei principi che per decenni sono stati considerati inalienabili perché contenuti nella Carta dei diritti dell’uomo e, in Italia, pure nella nostra Costituzione.
E’ evidente che quello elettorale maggioritario porti a considerare legittima la domanda se non ci si trovi di fronte ad una possibile ” anomalia” del più generale sistema democratico. Proprio in quel mondo che fa della Democrazia, sia pure quella formale di natura politico parlamentare, uno dei suoi motivi di vanto.
L’esperienza britannica, non è la prima volta che accade, dimostra che una ” minoranza” determinata riesce ad ottenere il numero più alto dei seggi ancorché ricevendo un numero di voti inferiori a quelli degli altri messi tutti assieme.
Una lezione che non hanno voluto mettere in pratica né il laburista Corbyn né la leader dei liberal democratici, Jo Swinson.
Il primo ha fatto pagare al suo partito un atteggiamento ondivago in materia di Brexit, che lo ha portato solo con molto ritardo a schierarsi per l’idea di indire un secondo referendum. Le posizioni estreme di Corbyn in campo economico e sociale, lui è considerato un vetero comunista, hanno molto complicato la possibilità di trovare un’intesa con i liberal democratici con i quali un accordo di cosiddetta ” desistenza”, cioé io ti voto dove tu sei più forte e tu fai votare i miei dove loro sono più dotati, non è stato proprio possibile realizzarlo.
Alla luce di tutte queste riflessioni è necessario giungere ad una sintesi che riguarda molto da vicino chi come noi ha lanciato il Manifesto per dare vita ad un “nuovo” soggetto politico ( CLICCA QUI )
La società occidentale ha bisogno di una ricomposizione. Questa non può che avvenire sulla base del ritrovamento di quei valori che giustificano lo stare insieme all’interno di una comunità. Essi sono inscindibilmente legati al riconoscimento dell’essere umano, del suo significato e del rispetto delle sue esigenze ed aspirazioni che devono essere soddisfatte in una dimensione non solo individuale, ma collettiva.
Un contributo ad una fase di rigenerazione nazionale da avviare può venire anche dal “nuovo” soggetto politico che ci accingiamo a costruire, orientato alla trasformazione civile e delle istituzioni sulla base della consapevolezza che l’essere umano, e tutte le sue relazioni, devono tornare realmente al centro dei processi economici e sociali.
di Giancarlo Infante – politicainsieme.com