Questo è un articolo difficile, anche se in fondo ho sempre temuto di doverlo scrivere. Nella notte del 24 febbraio 2022 la Russia ha invaso l’Ucraina da più fronti (settentrionale, meridionale e orientale). Si tratta di un’aggressione su larga scala, che punta direttamente al centro del potere politico per produrre un cambio di regime favorevole agli interessi di Mosca attraverso l’uso della forza. Un giorno che resterà per sempre nella storia dell’infamia. Putin ha così dato inizio alla tanto agognata riconquista della nazione ucraina, destinata nelle sue intenzioni a creare uno Stato satellite dipendente in toto dalla volontà del Cremlino. Un modello simile a quello bielorusso ma non identico: al contrario del regime di Lukashenko, già normalizzato, in Ucraina Putin punta all’annientamento della classe dirigente e della stessa identità nazionale del Paese.
Sono invecchiate molto male le analisi degli “esperti” che avvertivano che, in fondo, la prova di forza di Putin mirava “solo” a tener lontana Kiev dalla Nato e a negoziare “garanzie di sicurezza” per Mosca. Ancora 24 ore prima dell’invasione, illustri analisti realisti (sic!) spiegavano sui teleschermi degli italiani che la Russia ha sempre temuto “l’accerchiamento” e le “invasioni da Ovest”, paragonando implicitamente l’attacco hitleriano del 1941 con l’allargamento dell’Alleanza Atlantica nell’Europa Orientale. Peccato che Hitler oggi sieda nelle stanze del Cremlino e che la sua azione criminale ci riporti invece al 1939, quando il dittatore tedesco invase la Polonia, facendo sprofondare il mondo nella Seconda Guerra Mondiale.
Eppure bastava prestare attenzione al discorso alla nazione di lunedì scorso, in cui di fatto il presidente russo negava l’esistenza dell’Ucraina come entità statuale e prometteva l’estinzione della sua sovranità. È incredibile come la storia non abbia insegnato nulla e come ci si ostini a non interpretare le parole dei despoti per quello che sono, sforzandosi di adattarle alle regole del gioco vigenti nelle società democratiche. Mentre Putin sgranava il suo Mein Kampf in mondovisione, ancora una volta si preferiva vendere la finzione di una presunta strategia diplomatica. Invece no. Un leader sempre più paranoico e rinchiuso nel suo labirinto revisionista spiegava esattamente le sue intenzioni. Solo l’incapacità cronica di prendere in considerazione la natura dei regimi, per affidarsi a considerazioni puramente teoriche sulla razionalità degli attori geopolitici, impediva a molti di comprendere questa semplice realtà: Putin si avviava alla guerra perché il consolidamento del suo sistema autoritario non poteva più prescinderne.
All’escalation militare delle ultime ore si è aggiunta prevedibilmente quella verbale, un classico ormai della retorica incontinente del Cremlino: nel suo annuncio ufficiale dell’invasione, Putin ha citato come obiettivi la “denazificazione dell’Ucraina”, la fine del “genocidio” nel Donbass, topici sempreverdi della propaganda anti-ucraina di Mosca, e ha minacciato l’Occidente con “conseguenze mai viste prima” in caso di “interferenza”. Il riferimento alla possibilità di un attacco nucleare è fin troppo evidente. Le più nefaste previsioni della vigilia indicavano un’entrata di truppe russe nella regione del Donbass per consolidare le posizioni dei ribelli in seguito al riconoscimento dell’indipendenza della repubbliche secessioniste: in realtà i bombardamenti aerei e la penetrazione sul territorio sono stati generalizzati, da direzioni opposte e convergenti, quindi non limitati all’Est ma provenienti anche dalla zona del Mar Nero a Sud e dalla Bielorussia a Nord. Per restare ai centri principali, si sono registrati attacchi su Mariupol, su Odessa, sulla capitale Kiev, ma l’allarme anti-aereo è scattato anche a Lviv, quasi al confine con la Polonia. Alle 8 del mattino i blindati russi erano già alle porte di Karkhiv (Nord-Est, un milione e mezzo di abitanti).
Non vuol essere questa una cronaca bellica ma almeno due aspetti vanno sottolineati, in queste fasi iniziali. Con l’attacco su larga scala Putin si è spinto oltre ogni linea rossa immaginabile fino a pochi giorni fa, perfino quella che sembrava essersi posto lui stesso con la messinscena interna sul Donbass: come anticipato, il conflitto che dal 2014 imperversa nell’Est del Paese è il bubbone che serve a Putin come trampolino di lancio verso la conquista di Kiev (politica o militare, si vedrà), ma in nessun caso il solo obiettivo della sua incursione. La zona era già di fatto sotto il controllo russo grazie alle milizie separatiste, e l’ingresso delle truppe regolari risponde a un piano di espansione fino ai confini allargati della regione, premessa necessaria alla spaccatura e definitiva destabilizzazione delle istituzioni statali ucraine. Putin vuole far implodere l’Ucraina dall’interno per ridisegnarne la struttura politico-ideologica secondo i propri schemi. La partecipazione di effettivi bielorussi all’attacco aggiunge però un altro elemento importante di valutazione, in quanto amplia lo scenario di guerra a uno Stato formalmente sovrano ma de facto già assoggettato a Mosca. Ciò che dimostra inequivocabilmente che questa guerra non è – come sostengono alcuni analisti – la conseguenza del precipitare degli eventi (chi li ha fatti precipitare, se non Putin?) ma il risultato di un piano concepito a tavolino e di uno scenario geopolitico che la Russia stava preparando da tempo.
“Putin ha verosimilmente deciso di fare la guerra all’Ucraina lo scorso luglio, quando ha pubblicato un lungo saggio sull’unità storica dei russi e degli ucraini – osservava ieri Niall Ferguson sullo Spectator– in cui argomentava pretestuosamente che l’indipendenza dell’Ucraina era un’anomalia storica. Il che chiariva perfettamente che stava considerando l’invasione del Paese”. La risposta di Stati Uniti ed Europa andò allora nella direzione dell’appeasement: invece di rivendicare la legittimità e la difesa delle aspirazioni sovrane dell’Ucraina, si affrettarono a ribadire che non era in programma la sua adesione all’Unione europea e alla Nato. Nonostante ciò, ma del tutto prevedibilmente, Mosca avrebbe utilizzato durante i mesi successivi questa rassicurazione a suo esclusivo vantaggio, giocando la carta dello spauracchio Nato a fasi alterne, facendo intravedere una predisposizione al negoziato ma, di fatto, formulando richieste irricevibili mentre accumulava truppe ai confini.
La realtà è che abbiamo servito a Putin su un piatto d’argento la possibilità di organizzare con calma l’assalto all’Ucraina. Quando da Washington è arrivata l’esplicita negativa ad un intervento armato a difesa di Kiev, è scattato al Cremlino il segnale orario per l’invasione. La strada era libera, l’Occidente si sarebbe accontentato della solita dose di retorica a basso costo e dell’imposizione di sanzioni economiche che Mosca si stava già preparando ad assorbire e che, in ogni caso, avrebbero prodotto conseguenze negative anche per chi le avesse imposte. Un piano calcolato fin nei minimi particolari, che rischia di avere successo – almeno nel breve periodo – in assenza di una risposta coordinata e compatta delle cancellerie occidentali. Ma con le sanzioni non si fermano i carri armati e, nel frattempo, Kiev potrebbe essere già caduta. Resta comunque una scommessa azzardata quella dell’ex agente del KGB. Secondo Antonella Scott, de Il Sole 24Ore, “il presidente russo è consapevole del prezzo che pagherà, può essere il vincitore della giornata ma questo è l’inizio della sua fine”. Sarà certamente interessante con il tempo cercare di capire in che modo le dinamiche interne al sistema abbiano spinto Putin a prendere una decisione che, inevitabilmente, spinge la stessa Russia in un tunnel senza uscita, e che peso avranno sul prosieguo della sua presidenza.
Lui intanto si prepara a una guerra-lampo, gli ucraini a una resistenza prolungata, almeno sulla carta. Zelenskij, passato improvvisamente dalla tranquillità fin troppo ostentata dei giorni precedenti alla cupa atmosfera della legge marziale, si rivolgeva in un emotivo discorso ai russi, provando a spiegare loro che il suo Paese non era quello che il governo e i media affini al Cremlino descrivevano per giustificare la guerra. Un appello che contrasta con la condanna a morte che in due occasioni – prima nell’annuncio del riconoscimento delle repubbliche del Donbass, poi in quello dell’invasione – il suo omologo russo ha decretato nei confronti dell’Ucraina libera e indipendente: demilitarizzazione, rinuncia alla Nato, riconoscimento dell’indipendenza del Donbass e dell’annessione della Crimea, sono le condizioni della resa che Putin ha dettato ancor prima di vincere sul campo. Veri e propri ultimatum ad un “nemico” che considera evidentemente senza speranza.
La Nato ha attivato i piani difensivi lungo i confini orientali, ha fatto sapere il segretario generale Stoltenberg, e i membri si riuniranno oggi, “virtualmente”. Si attende un messaggio di unità e di fermezza ma arriverà comunque tardi. Mentre scrivo, i dispacci dal fronte indicano che le truppe dell’esercito russo marciano spedite in direzione della capitale. Dopo Georgia, Crimea, Transnistria e Donbass, invece di mostrare i denti, l’Europa a trazione tedesca ha invitato Putin al tavolo del business energetico, consegnandogli le chiavi della penetrazione geopolitica nel continente. Da più parti adesso si accusa Washington di aver sacrificato l’Ucraina, lasciando l’Europa sola di fronte al suo destino. È vero che agli Stati Uniti, impegnati nel confronto con la Cina, è mancata determinazione nel far fronte alla minaccia russa che si stava materializzando sotto i loro occhi. Ma il destino di dipendenza da Mosca l’Europa se l’è costruito da sola, e oggi le agiografie di Angela Merkel possono tranquillamente andare a riempire i cassonetti della spazzatura.
Per ora è tutto un moto di indignazione e di condanna, poi – statene certi – ricominceranno i distinguo, le relativizzazioni, le false equidistanze. Il pacifismo sonnecchia, sconcertato da un imperialismo non imputabile all’aquila yankee. Disabituata al pensiero critico e dimentica dei suoi principi fondanti, la civiltà occidentale fa sempre più fatica a distinguere il bene dal male, trovandosi sistematicamente impreparata di fronte ad eventi che ha preferito cancellare dal proprio orizzonte ideale. Nessuno salverà l’Ucraina dalla russificazione. Speriamo solo che la tortura duri il meno possibile e prepariamoci per le prossime guerre che la Russia dichiarerà in Europa (e per quella dei comunisti cinesi contro Taiwan). A meno che nel frattempo non succeda qualcosa nei dintorni della Piazza Rossa.
Enzo Reale – Atlantico