Il fattore Draghi ha sì giocato un ruolo, ma in negativo. Occhio al Senato: servono almeno 120 seggi. Prossima sfida: non farsi mettere sotto tutela da Mattarella e Bruxelles
Chi ha fatto opposizione credibile al governo Draghi vince, anzi stravince. Chi lo ha sostenuto perde, alcuni straperdono. Chi in zona Cesarini si è trovato, quasi involontariamente, a staccargli la spina, perde ma non tracolla, anzi rimonta.
Si potrebbe sintetizzare così l’esito delle elezioni politiche tenute ieri, che hanno visto anche il record negativo di affluenza, 63,9 per cento, la più bassa della storia della Repubblica, dato su cui torneremo.
Il fattore Draghi
Smascherata dunque la più grossa balla che ci è stata raccontata per oltre un anno dalla narrazione mainstream, ovvero la grande popolarità di cui avrebbe goduto il governo Draghi, e in particolare la persona del premier.
A tal punto questa balla è stata introiettata da Letta, Renzi e Calenda, da basare gran parte dei loro attacchi contro gli avversari sull’accusa di averlo fatto cadere. Erano convinti che gli italiani li avrebbero puniti, invece li hanno premiati.
Fratelli d’Italia, unico partito all’opposizione di Draghi, si ritrova partito di maggioranza relativa. E la sua leader prenderà probabilmente il suo posto a Palazzo Chigi.
È sulle ceneri del governo Draghi, e sulla conseguente mancata alleanza con il Pd, che il Movimento 5 Stelle è resuscitato, che l’ex premier Giuseppe Conte ha costruito la rimonta, portandolo a limitare le perdite rispetto al 32 per cento del 2018.
Non dimentichiamo infatti che all’inizio della campagna elettorale i sondaggi attribuivano ai 5 Stelle a mala pena la doppia cifra, mentre ha chiuso al 15 per cento vincendo numerose sfide nei collegi uninominali al sud, in particolare in Campania.
Laddove è riuscito Conte, ha fallito Matteo Salvini. La Lega è crollata, punita dai suoi elettori per la partecipazione al governo Draghi e per il sostegno alla linea chiusurista e al Green Pass, ma paradossalmente a pagare sarà il suo segretario, che era il più scettico.
Di fatto commissariato da governisti e governatori, il leader della Lega ha perso il bandolo della matassa. Non ha avuto la forza di condizionare l’azione di governo, né di convocare un Congresso per chiarire la linea del suo partito, né ha avuto il coraggio di essere lui a staccare la spina quando, dopo la rielezione del presidente Mattarella, era chiaro che l’esperienza del governo Draghi era agli sgoccioli.
Dimezza i suoi consensi rispetto al 2018 Forza Italia, mostrando comunque una certa tenuta e finendo davanti al cosiddetto Terzo polo di Calenda e Renzi (non è terzo né per ordine d’arrivo né per posizionamento politico), che hanno fallito nel loro tentativo di trasformare il voto in una nuova chiamata di Mario Draghi.
Del Pd, degli errori di Enrico Letta, è stato già detto tutto nei giorni scorsi. Non ha provato a mettere insieme tutti, da Conte a Calenda, in una specie di CLN, né ha scelto l’alleanza con i 5 Stelle, né un percorso riformista con Renzi e Calenda. Ha puntato tutto sull’allarme fascismo e ha raccolto uno scarso 19 per cento. Come nel 2018, ma con 9 punti percentuali di affluenza in meno.
Insomma, la santificazione di Mario Draghi si è rivelata per quella che era, una operazione da media di regime, inesistente nel Paese. Il fattore Draghi ha sì giocato un ruolo, ma in negativo.
Meloni premier
Fratelli d’Italia ha confermato le aspettative della vigilia, passando dal 4 per cento del 2018 al 26 per cento. Giorgia Meloni è la grande trionfatrice di queste elezioni, non vediamo come possa non ricevere l’incarico di presidente del Consiglio. Sarebbe la prima donna premier in Italia, una donna di destra, come spesso capita nel panorama politico occidentale.
Nel suo primo commento, ieri notte, spiccano le parole “tempo della responsabilità” e “unire il Paese”. Un discorso, e una campagna, come ha osservato Daniele Capezzone, non da far-right ma da right-wing. “Merita di ricevere giudizi e non pregiudizi”.
La super-maggioranza al Senato
Se nel momento in cui scriviamo le percentuali dei partiti sembrano ormai definite, capiremo in queste ore quali dimensioni assumerà la vittoria del centrodestra in termini di seggi, ovvero quanto ampia sarà la sua maggioranza parlamentare.
Come avevamo osservato su Atlantico Quotidiano durante la campagna elettorale, per essere certo di governare il centrodestra deve non solo vincere, ma stravincere, e Fratelli d’Italia risultare il partito di maggioranza relativa.
Una delle due condizioni si è verificata, ma per mettersi al riparo da giochetti e manovre di palazzo serve una super-maggioranza al Senato. La soglia di sicurezza si colloca a nostro avviso sui 120 seggi, un obiettivo che sembrerebbe alla portata con un 43-44 per cento di coalizione e un distacco di 17-18 punti dal centrosinistra.
Il primo banco di prova
Vinta la prima battaglia, quella elettorale, è già all’orizzonte la prossima: non farsi scippare la vittoria. Se come sembra la maggioranza sarà abbastanza ampia al Senato, non dovrebbero esserci sorprese da parte degli alleati e del Quirinale: Giorgia Meloni dovrebbe ricevere l’incarico di presidente del Consiglio.
Il problema, a quel punto, sarà la formazione del governo e l’indicazione dei ministri. Facilmente prevedibile infatti che il presidente Mattarella cercherà di mettere sotto tutela il governo Meloni condizionando le scelte sui Ministeri-chiave: su tutti il nome del ministro dell’economia e delle finanze.
Sarà il primo banco di prova della coalizione. La Meloni dovrà essere pronta, se necessario, anche ad un braccio di ferro con il Quirinale. E gli alleati dovranno evitare di prestare il fianco ai prevedibili tentativi di metterli l’uno contro l’altro sui nomi dei ministri.
Se la Meloni e il centrodestra si lasceranno imporre da Mattarella i nomi dei ministri-chiave, o se loro stessi faranno scelte “tecniche” per rassicurare e legittimarsi, saranno commissariati ancor prima di partire, come è accaduto al governo giallo-verde e alla Lega nel governo Draghi.
Il crollo dell’affluenza
Il dato di sistema del risultato di ieri è che si torna ad un governo politico, uscendo finalmente da un decennio in cui – complici leggi elettorali concepite al preciso scopo di impedire al centrodestra di governare – si sono susseguiti governi tecnici o governi di più o meno larghe intese, con il Pd a fare il bello e il cattivo tempo.
Un decennio in cui abbiamo assistito, proprio per questo motivo, ad un progressivo e inarrestabile calo dell’affluenza, fino al 63,9 per cento di ieri, partecipazione più bassa della storia della Repubblica.
L’elettorato è ormai sfiduciato, dopo anni in cui si è rafforzata la percezione che votare sia inutile, praticamente senza conseguenze, dal momento che gli indirizzi degli elettori vengono o sovvertiti da dinamiche di sistema, endogene ed esogene, o traditi dagli stessi partiti che ne avevano raccolto il consenso, come accaduto negli ultimi quattro anni con Movimento 5 Stelle e Lega.
Nonostante la netta vittoria, nemmeno Fratelli d’Italia, pur essendo all’opposizione, ha saputo guadagnarsi la fiducia di quei diversi milioni di italiani che si sono aggiunti agli astenuti del 2018.
Né hanno saputo farlo forze politiche apertamente anti-sistema, come Italexit di Gianluigi Paragone.
Nessuna di esse evidentemente ha saputo trasmettere il senso di un voto utile, la percezione di una vera svolta, di una “rottura” con il passato.
Pronti a combattere
Ora, la principale sfida del centrodestra al governo sarà quella di non dare vita ad una versione solo leggermente ammorbidita e “moderata” dei governi che abbiamo avuto nell’ultimo decennio, deludendo anche gli elettori che gli hanno dato fiducia.
Dovrà governare senza però dimenticare che la sua vittoria nelle urne non basta di per sé a cancellare il gigantesco problema di agibilità democratica nel nostro Paese, a causa di vincoli esterni e meccanismi di blocco interni deliberatamente introdotti e sedimentati nel corso dell’ultimo decennio.
Detto più banalmente: si ritroverà contro tutti e tutto. Non ci sono abiure, né “moderazione” di cui i centri di potere ancora occupati dalla sinistra, o Bruxelles, possano e vogliano accontentarsi.
Mai dimenticare che sono disposti a vedere il Paese in macerie pur di abbattere un governo di destra. Il centrodestra dovrà quindi essere pronto a combattere.
Federico Punzi – Atlantico