E’ stato smentito chi scommetteva sul 21 settembre per vedere scompaginata ogni cosa all’apertura delle urne collocate per il referendum sul taglio del numero dei parlamentari e per il voto in sette regioni. Il risultato complessivo porta a far ritenere che, per ora, la maggioranza parlamentare e il  Governo resistono. Matteo Salvini, che deve avere avuto al seguito dei buoni sondaggisti, se lo immaginava quando diceva nei giorni scorsi che questa tornata elettorale non avrebbe inciso sulle sorti dell’esecutivo di Giuseppe Conte.

Come al solito, tutti trovano motivi di soddisfazione nei risultati, ma non è così. Emergerà ancora più chiaramente quando, grazie alla diffusione dei dati maggiormente dettagliati, soprattutto quelli delle elezioni regionali, giungerà la conferma di alcuni elementi che già raffigurano un quadro presente nei fatti.

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L’affluenza alle urne resta poco superiore alla metà degli aventi diritto.

Il Coronavirus ha “aiutato” i governatori uscenti mutando completamente lo scenario che, alla fine dello scorso anno, vedeva in grave crisi De Luca, Emiliano e Toti.

I Sì hanno confermato che questo Paese vive ancora in un clima da anti casta. Se, però, si passa dal voto referendario a quello delle regionali vediamo che i 5 Stelle continuano con una caduta libera su cui non sembrano essere in grado di fare una riflessione seria.

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Fallisce l’ipotesi di quanti pensavano attorno al No di costruire un partito o una coalizione. Idea accarezzata anche da qualche nostro amico che non riesce fino in fondo a constatare come sia giunto il momento di pensare ad una presenza chiara e autonoma da parte del popolarismo d’ispirazione cristiana.

Il centrodestra non riesce a dare la spallata che voleva e si deve accontentare  di strappare agli avversari la sola regione delle Marche. In questa coalizione, la Lega non la fa più da padrone. Il trionfo di Zaia ripropone la dicotomia interna al leghismo tra l’idea salviniana di creare un vero e proprio partito di destra e quelli che, invece, continuano a credere in un’adesione più definita con le istanze territoriali. Il consolidarsi del peso della Meloni fa intravedere che Salvini ha perso la propria spinta propulsiva e deve sempre più fare i conti con i suoi alleati.

Matteo Renzi esce fortemente debilitato persino nella sua Toscana restando molto al di sotto delle aspettative. Le tante liste  che non riescono a mettersi insieme per concretizzare davvero quella fine del bipolarismo da loro auspicato fanno la figura dei capponi di Renzo. Emblematico il risultato della Campania dove De Luca è stato abilissimo nel favorire la formazione di un numero sproporzionato di listarelle che, alla fine, si dimostrano non in grado di condizionarlo nel futuro.

Il Pd non va bene. In Toscana sopravvive per un soffio nonostante la oggettiva debolezza della candidata del centrodestra e si trova che due governatori “scomodi” riescono a sopravvivere nella misura in cui, in qualche modo, si smarcano dall’apparato di partito e perseguono con una politica che definire personalistica è un eufemismo.

Finiamo queste sommarie considerazioni con una riflessione sui nostri amici della “diaspora”. Un disastro. Quello che ci aspettavamo, purtroppo. Aggravato da una contraddittorietà di messaggi lanciati perché la preoccupazione è solo stata quella di partecipare ad una competizione per innalzare un lumicino senza porsi il problema che l’Italia ha bisogno d’altro e di quanto, invece, ci sia l’urgenza di dare corso a una ben più ampia partecipazione per portare al Paese il contributo di una grande tradizione qual è quella del popolarismo d’ispirazione cristiana.

di Giancarlo Infante