Democrazia è una delle parole più inflazionate della storia: dall’antica Grecia in poi è stata infatti declinata in mille modi, spesso a seconda delle convenienze di chi si è impadronito di volta in volta del potere. Non si chiamavano forse «democratiche» le Repubbliche dell’Est europeo ai tempi della guerra fredda? E per un evidente paradosso, democratica era definita la Germania del dittatore Honecker, e solo «federale» quella di Helmut Kohl. Oggi il vocabolario è stato aggiornato, e i Paesi, diciamo così, a libertà vigilata, vengono definiti con un termine sgraziato ma efficace: «democrature». Ebbene, forse per il feroce caldo estivo di questo terribile 2020, sta prendendo corpo un incubo sempre più realistico: quello di un grande Paese industrializzato, ancorato da 70 anni ai principi liberali – e che si vanta di avere la Costituzione più bella del mondo – in cui negli ultimi mesi si stanno accavallando avvenimenti che dovrebbero suscitare qualche legittima apprensione nelle sentinelle della democrazia.
Ne mettiamo in fila tre: questo Paese è l’unico in cui il governo ha preteso di estendere di altri mesi lo stato d’emergenza nazionale per l’epidemia Covid: lo ha proclamato per primo, a marzo, e sarà di gran lunga l’ultimo a uscirne. Il premier intendeva – e probabilmente questo resta il suo obiettivo – prorogarlo fino a Natale, ma per ora ha ripiegato sulla scadenza del 15 ottobre con la scusa di non buttare a mare i provvedimenti in corso d’opera per il contenimento della pandemia, ma le motivazioni tecniche nascondono sempre inevitabili mire politiche, e in questo senso l’esperienza maturata nel lungo lockdown ha lasciato tracce non proprio rassicuranti: durante l’emergenza lo stesso premier infatti si è surrettiziamente appropriato dei poteri eccezionali che sarebbero previsti dall’articolo 78 della Costituzione solo ed esclusivamente per lo stato di guerra, e limitando la libertà dei cittadini a colpi di Dpcm – ossia atti amministrativi – si è mosso ai limiti della legalità costituzionale mettendo sempre il Parlamento di fronte al fatto compiuto. In effetti la Costituzione all’articolo 13 stabilisce che la libertà personale è inviolabile, una norma che è il pilastro su cui è stata ricostruita la nazione dopo la seconda guerra mondiale, e questo principio basilare può essere compresso dall’Autorità Giudiziaria, ma solo nei limiti fissati dalla legge e in casi eccezionali di necessità ed urgenza, e comunque per un arco temporale limitatissimo. Già questo dovrebbe essere sufficiente per far suonare il primo campanello d’allarme.
Ma c’è di più: il tribunale amministrativo ha appena dato ragione a una libera Fondazione – la Einaudi – che chiedeva la pubblicazione dei verbali del comitato tecnico scientifico in base ai quali il governo ha tenuto l’intero Paese in quarantena. Il Tar ha accolto la richiesta, ma il governo, che peraltro avrebbe il dovere di rendere pubblico anche il piano pandemico nazionale elaborato prima dello stato d’emergenza, ha fatto immediatamente ricorso per bloccare la pubblicazione, operazione obliqua ma per il momento riuscita. I cittadini di quel Paese, evidentemente, non hanno il diritto di conoscere gli atti che hanno portato alle draconiane misure di restrizione attraverso i quali si sono visti limitare le libertà personali. Perché quei verbali sono stati secretati? L’ipotesi di una segretezza imposta da motivi di ordine pubblico sarebbe sconcertante nel momento in cui il governo ha ottenuto la proroga dello stato d’emergenza, perché restano troppe zone d’ombra su cosa è effettivamente accaduto nei giorni cruciali dell’epidemia: ad esempio, come mai fu ordinato di non eseguire le autopsie sui morti per il Covid, che avrebbero offerto lumi su una malattia sconosciuta accelerando così l’approdo a cure più efficaci? Perché quel governo si sta trincerando dietro un inquietante muro di segretezza? Cosa sta nascondendo?
E veniamo al terzo avvenimento di questo incubo di mezza estate: in quello stesso Paese il leader dell’opposizione è stato mandato a processo dal Parlamento con un’accusa gravissima e infamante: sequestro di persona, un reato per cui si rischia fino a quindici anni di galera. Una storia allucinante, per cui una decisione collegiale assunta dal precedente governo – di cui quel politico faceva parte – nel rigoroso rispetto del programma concordato sulla gestione dei flussi migratori, è stata poi rinnegata e rovesciata contro di lui per una chiara rappresaglia politica. Questo è accaduto dopo che l’ex potente capo dell’Associazione nazionale magistrati aveva confidato a un pm che era un dovere attaccarlo anche se aveva ragione. L’eliminazione dei politici scomodi per via giudiziaria fa parte, del resto, della storia recente di quella democrazia: il precedente leader dell’opposizione aveva infatti subito la stessa sorte, sotto i colpi di una sentenza della Corte Suprema poi sconfessata dallo stesso relatore del collegio giudicante. Un Paese in cui è stata di fatto abolita la prescrizione dei processi, e dove vacilla da tempo la separazione dei poteri, con un ministro della Giustizia succube del partito delle procure. Tre indizi, si dice, fanno una prova, una prova tecnica di regime. Ecco, questo Paese da incubo non è Hong Kong – anche se in effetti sta diventando una colonia cinese nel Mediterraneo – o una repubblichetta delle banane sperduta ai confini del globo: questo Paese è l’Italia del 2020, che si appresta ad affrontare la peggiore crisi economica dal dopoguerra e non ha tempo di chiedersi se siamo ancora una democrazia o siamo invece già scivolati nella democratura. Speriamo che il risveglio non sia peggiore dell’incubo.
di Riccardo Mazzoni – Tempo