Il presidente ucraino si dice “pronto” al negoziato e a firmare l’accordo con gli Usa, garanzia di sicurezza implicita. Occhio al cinismo dell’establishment Ue che cerca di sopravvivere

L’errore esiziale del presidente ucraino Volodymyr Zelensky nei 40 minuti che hanno preceduto la reazione di Vance-Trump venerdì scorso è aver contestato radicalmente e polemicamente l’idea stessa di un percorso diplomatico (“Di che genere di diplomazia stai parlando, J.D.?”). La dichiarazione di lunedì (la fine della guerra “molto molto lontana”) ha fatto traboccare il vaso e l’amministrazione Trump ha annunciato – tramite un funzionario ai media – la sospensione degli aiuti militari a Kiev finché la leadership ucraina non dimostrerà la volontà di impegnarsi nel processo di pace.

La svolta di Zelensky

Ieri pomeriggio la svolta di Zelensky, con un eccellente comunicato: “Nessuno di noi vuole una guerra senza fine“. Il presidente ucraino si dice “pronto a sedersi al tavolo dei negoziati il prima possibile per avvicinare una pace duratura”, a “lavorare sotto la forte leadership del presidente Trump” e “a lavorare velocemente per porre fine alla guerra”.

Avanza un’ipotesi di cessate il fuoco (molto bene): “le prime fasi potrebbero essere il rilascio dei prigionieri e una tregua nei cieli (…) e nei mari immediatamente“. “Vogliamo muoverci molto velocemente attraverso tutte le fasi successive e lavorare con gli Stati Uniti per concordare un accordo finale forte”.

Ringrazia per il sostegno Usa, ricorda “il momento in cui le cose cambiarono quando il presidente Trump fornì i javelin“, definisce “deplorevole” come è andato l’incontro di venerdì scorso, si dice “pronto” a firmare l’accordo sulle risorse minerarie “in qualsiasi momento e in qualsiasi formato“. La firma potrebbe essere già avvenuta, e annunciata da Trump ieri sera al Congresso, mentre leggete questo articolo.

Probabilmente hanno avuto successo le pressioni europee “giuste” (Londra, Varsavia), perché nel pomeriggio i messaggi da Kiev non erano dei migliori. “Stiamo discutendo con i partner europei” la possibilità di sostituire gli aiuti militari americani“, aveva scritto su Telegram Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino. “E tuttavia non ignoriamo la possibilità di negoziati con i nostri partner americani”, aggiungeva, ricordando che “l’Ucraina ha già avuto esperienze di sospensioni a lungo termine dei programmi di sostegno militare degli Stati Uniti e sa come adattarsi a tali situazioni…”.

La situazione che si è venuta a creare, di cui Zelensky porta le maggiori, sebbene non uniche responsabilità, avvantaggia chiaramente la Russia, che sta alla finestra, non ha alcun interesse ad accelerare il processo, perché ha già ottenuto il risultato di essere trattata alla pari dagli Usa e l’avvio di un disgelo diplomatico con Washington, senza aver dovuto concedere un cessate il fuoco, quindi si gode le divisioni occidentali e, soprattutto, non deve nemmeno faticare troppo per promuovere la narrazione secondo cui avrebbe vinto la guerra. Stanno facendo tutto il lavoro, nell’ordine, Zelensky, gli europei e Trump.

Vincere la pace

Ma è proprio vero che Kiev ha perso la guerra? Dipende dagli obiettivi iniziali. Dal momento che l’obiettivo di Putin non era la semplice rinuncia all’ingresso nella Nato, come sembra illudersi Trump, ma il pieno controllo politico dell’Ucraina e la sua separazione dall’Occidente, Kiev non sta perdendo, ma nemmeno vincendo. Grazie alla resistenza degli ucraini e agli aiuti occidentali il piano di Putin di prendersi tutto il Paese e mettere un suo uomo al potere a Kiev è fallito. Tendiamo a darlo per scontato, ma non lo è. Ma è un successo che va consolidato.

Dal momento che nessuno degli attori in campo sembra avere la volontà, o le forze, per infliggere alla Russia una sconfitta sul campo di battaglia, ovvero respingerla al di là dei confini del febbraio 2022 – ma questo non è vero da oggi, da quando c’è Trump, è vero da sempre e lo sappiamo tutti – Kiev deve “accontentarsi” di vincere la pace ed è un risultato che può ancora conseguire. Restare un Paese indipendente e libero, sempre più integrato all’Occidente, con sufficienti garanzie di sicurezza. Se questo accadrà, Putin non avrà affatto “vinto” la guerra, ma perché ciò accada bisogna andarsi a giocare le proprie carte al tavolo del negoziato.

L’idea che negoziare con Putin equivalga di per sé ad una resa significa paradossalmente riconoscere che sta vincendo, anche se questo è vero solo in parte. È vero per i territori ucraini occupati militarmente, ma la sua non è (ancora) una vittoria politica. Purtroppo, se è comprensibile che i putiniani di destra e di sinistra cantino la vittoria di Putin e la sconfitta di Kiev, lo è molto meno se questa narrazione viene abbracciata dai sostenitori dell’Ucraina per puro anti-trumpismo.

È molto improbabile che la continuazione della guerra possa ribaltare i rapporti di forza sui campi di battaglia, mentre per via diplomatica è ancora possibile – sebbene a nostro avviso molto difficile, ma Trump ha il diritto di provarci – arrivare ad una soluzione che garantisca Kiev. I veri amici dell’Ucraina, come l’ex premier britannico Boris Johnson, o l’attuale premier Starmer, stanno spingendo perché Kiev salga a bordo del tentativo Usa.

Il senso dell’accordo Usa-Ucraina

L’accordo sulle risorse minerarie che Zelensky ha fatto saltare venerdì, consapevolmente o meno poco importa a questo punto, è la pietra angolare di un coinvolgimento a lungo termine degli Stati Uniti nel Paese. Per questo molti dei più ferventi sostenitori della causa ucraina lo avevano esortato a firmare e per questo Putin aveva cercato di allettare Trump con un accordo simile ma con la Russia.

Anche chi lo ritiene insufficiente di per sé come garanzia di sicurezza, come il premier britannico Starmer, comunque ha esortato Zelensky a firmarlo per portare dentro l’America di Trump. “Zelensky avrebbe potuto lasciare la Casa Bianca venerdì ottenendo che gli Stati Uniti e l’Ucraina fossero legati economicamente per una generazione“, ha spiegato alla Cnn il consigliere per la sicurezza nazionale Michael Waltz.

I “falsi amici” europei

Al contrario, Zelensky dovrebbe guardarsi dagli “amici” che lo stanno incoraggiando a mettersi di traverso all’iniziativa diplomatica di Trump, perché questi falsi amici non sarebbero in grado di sostituirsi agli Usa nel sostegno a Kiev, né militarmente né a livello diplomatico.

Come ha rivelato J.D. Vance, molti dei leader che in pubblico non esitano a lodare Zelensky e garantirgli il loro appoggio “fino alla fine” in polemica con l’amministrazione Trump, poi privatamente ammettono che “non si può andare avanti per sempre”. E secondo il Telegraph, anche al vertice di Londra, come ha rivelato un funzionario, “tutti i leader presenti” hanno sottolineato che “senza Washington non possiamo farcela“. Questa ipocrisia non deve sorprendere, l’Ucraina come vedremo è diventata un tema di politica interna europea.

Nonostante i toni ruvidi, persino brutali della diplomazia trumpiana, la mano americana è ancora tesa. La sospensione degli aiuti militari, che pochi giorni prima, quando sembrava che Zelensky fosse pronto a salire a bordo, Trump aveva confermato, va letta come estremo tentativo di convincere Kiev a sedersi al tavolo. E pare abbia funzionato in meno di 24 ore.

Testare i russi

Lo stato attuale, come hanno più volte spiegato, sia privatamente che pubblicamente, il segretario di Stato Marco Rubio e il consigliere Michael Waltz, è che Washington sta lavorando per coinvolgere nel negoziato sia la Russia che l’Ucraina e per determinare se c’è da entrambe le parti una seria disponibilità a trattare.

A parole, da parte di Putin ci sarebbe, così sostiene Trump, mentre Zelensky ha dato all’amministrazione l’impressione opposta. A Putin è stato prospettato il ripristino delle relazioni diplomatiche con gli Usa tra pari, a Zelensky un accordo per il coinvolgimento a lungo termine degli Usa nel Paese. L’approccio è “fiducia e verifica”, ma non c’è modo di testare la buona fede russa finché non si entra nel vivo, con proposte sul tavolo. E non c’è modo di entrare nel vivo se Kiev oppone resistenza.

Come ha spiegato Rubio, “il nostro obiettivo è portare Ucraina e Russia ad un tavolo per negoziare. Non fare nulla per interromperlo. Invece è quello che ha fatto Zelensky, purtroppo. (…) Nessuno qui sostiene che Putin riceverà il Nobel per la pace. Ma dobbiamo capire: esiste un modo per convincerli a fermare la guerra, a quali condizioni accetterebbero? L’unico modo per saperlo è coinvolgere i russi nei negoziati, cosa che gli europei non sono stati in grado di fare”. “Il nostro approccio sarà basato su fidarsi ma verificare“.

L’accordo, ha ricostruito venerdì scorso il segretario di Stato, “poteva essere firmato cinque giorni fa ma gli ucraini hanno insistito per venire a Washington e avrebbe dovuto esserci una consapevolezza molto chiara: non venite qui a creare uno scenario in cui cominciate a darci lezioni su come la diplomazia non funzionerà. Ma Zelensky ha preso questa direzione”.

Garanzie di sicurezza?

“Abbiamo spiegato molto chiaramente [agli ucraini] qual è il nostro piano: vogliamo portare i russi al tavolo negoziale e capire se la pace è possibile. E capiscono che l’accordo che doveva essere firmato oggi (venerdì scorso, ndr) lega economicamente l’America all’Ucraina e che per me, come ho spiegato e come penso che il presidente abbia suggerito, è una garanzia di sicurezza a suo modo perché noi siamo coinvolti. Questo è stato spiegato e capito”.

Come ha chiarito il consigliere Waltz, “entrambe le parti dovranno scendere a compromessi“. Compromessi che riguarderanno “più o meno garanzie di sicurezza per qualche tipo di concessioni territoriali”. Le garanzie di sicurezza dovranno essere “guidate dall’Europa” in termini di capacità di difesa e saranno i negoziati a determinare “quale tipo di sostegno forniranno gli Stati Uniti”, ma non sarà l’ingresso di Kiev nella Nato.

“Abbiamo avuto qui i principali leader europei che affermavano di essere pronti a farsi avanti e a fornire tali garanzie di sicurezza. E il presidente ha anche detto che si dovrà negoziare una sorta di sostegno americano”.

Lo stop agli aiuti

Quindi, quello che Trump sta cercando di far capire a Kiev sospendendo gli aiuti militari è che non ha una leva per costringere gli Usa a continuare a sostenerla nella guerra anche se si rifiuta di impegnarsi nel negoziato. In pratica, evitare che il sostegno Usa appaia incondizionato, altrimenti gli ucraini non sarebbero incoraggiati nel processo di pace.

No, Trump non è intenzionato ad abbandonare l’Ucraina, ma vuole chiudere la guerra, o almeno arrivare ad una cessazione dei combattimenti. Se Kiev si mette di traverso, perché erroneamente pensa di avere “leva” per costringere gli Usa a sostenere indefinitamente la guerra, si sbaglia di grosso. In questo caso Trump non esiterebbe ad abbandonarla, con l’approvazione della maggioranza degli americani.

Sfida europea a Trump

Alcuni in Europa, come il premier britannico Starmer, stanno avendo un ruolo positivo, cercando di avvicinare le posizioni nel solco dell’iniziativa di Trump, perché si rendono conto che se gli Usa si sfilano è un grosso guaio. Altri però, soprattutto a Bruxelles, stanno alimentando le divisioni pur non potendo offrire a Kiev un aiuto concreto e immediato.

Se questa sfida alla politica estera Usa ha la meglio rispetto all’approccio di Starmer, l’Occidente rischia di spaccarsi, ma lo scontro è soprattutto di natura ideologica. L’Ucraina, più che venire spartita tra Usa e Russia, rischia di soccombere nella guerra fra Trump e l’establishment europeo, che vede nello scontro con la presidenza Usa, e quindi nella continuazione della guerra ucraina, uno strumento per la sua sopravvivenza e per erodere ulteriore sovranità agli Stati europei: in pratica, sta giocando la “carta” Zelensky contro Trump.

Ma è proprio questo disallineamento che rischia di incoraggiare e accelerare il disimpegno Usa dell’Europa.

Federico Punzi- Atlantico