Non è tanto un artificio per sfuggire alla condanna; piuttosto uno strumento di tutela del cittadino contro gli effetti delle lungaggini della giustizia di cui non è responsabile
Non sono opinioni, sono dati che riflettono una realtà amara, e che non fa sconti: l‘ultimo rapporto della Commissione europea sulla Giustizia (si riferisce al 2019) colloca l’Italia ultima in classifica nell’Unione Europea per quello che riguarda i tempi della giustizia civile: per la sentenza di primo grado l’attesa può arrivare fino a 500 giorni. Per una sentenza definitiva si può arrivare a 1.300 giorni, quattro anni. Ogni anno in Italia si aprono circa 4 milioni di cause civili, commerciali e amministrative. Secondo la Commissione europea, il buon funzionamento del sistema giudiziario ha effetti positivi su investimenti, produttività e concorrenza. Ovviamente se questo funzionamento è pessimo, gli effetti saranno (come effettualmente sono) negativi. Con conseguente sfiducia di investitori stranieri, e fuga di quelli ‘indigeni’ verso mercati più efficienti. Bruxelles e l’Unione Europea su questo ci attendono al varco: la giustizia è uno dei punti essenziali per ottenere i fondi del Recovery. Ogni altro discorso non ha ragion d’essere.
Gran discutere, in questi giorni, sulle proposte di riforma del Ministro della Giustizia Marta Cartabia. In particolare quell’ala del Movi/Mento 5 Stelle che fa capo a Giuseppe Conte sembra intenzionato a non ingoiare il rospo della sostanziale liquidazione, sia pure con artificio, del marchingegno congegnato dall’ex Ministro Alfonso Bonafede. O questa minestra, o saltate dalla finestra, è il sostanziale diktat del Presidente del Consiglio, Mario Draghi: sorriso cordiale, guanto di velluto, pugno di ferro, l’imperturbabilità serena di chi sa che non ci sono alternative. Per essere un ‘non politico’ di professione, Draghi dimostra di saperla comunque fare.
A questo punto, comunque, occorre cercare di fugare un equivoco. Cos’è, in estrema sintesi, un avvocato? Un professionista che viene pagato da un cittadino che si trova nei guai con la legge. L’avvocato si disinteressa se il cliente sia o no innocente o colpevole. La sua preoccupazione è quella di uscire il suo assistito con il minor danno possibile. E’ per quello che viene pagato. Sua è la strategia processuale, per raggiungere lo scopo che si prefigge. L’unico che la può sindacare è il cliente, il ‘datore di lavoro’. Per il resto, l’avvocato è liberissimo di usare tutti gli strumenti che ha a disposizione.
Chiarito questo, si può ora discutere delle proposte di riforma della giustizia. Pietra dello scandalo, la prescrizione. In sostanza i suoi nemici puntano il dito contro gli avvocati difensori, accusandoli di dilatare i tempi del processo. Ci saranno anche avvocati che per le loro cause puntano su questo tipo di ‘logoramento’, ma questo non deve interessare, né può essere invocato come attenuante o giustificazione.
La durata eccessiva dei processi (e che l’Unione Europea sanziona e condanna) non dipende tanto dalla volontà delle parti di allungare i tempi. Piuttosto è figlia della disorganizzazione degli uffici giudiziari: questa è la vera causa dei tempi intollerabilmente lunghi. Di conseguenza, prescrizione non è tanto un artificio per sfuggire alla condanna; piuttosto uno strumento di tutela del cittadino contro gli effetti delle lungaggini della giustizia di cui non è responsabile. Invece di ‘inveire’ contro avvocati e i loro clienti, lo Stato dovrebbe preoccuparsi di organizzarsi in modo da garantire la ragionevole durata del processo così come la Costituzione prevede. Una classe politica degna di questo nome, di questo dovrebbe preoccuparsi e occuparsi.
Non sono le parti che devono farsi carico della durata del processo. Le parti decidono le strategie processuali che ritengono più opportune, chi ha più tela, fila. E’ l’amministrazione della giustizia, che deve garantire l’efficienza del sistema. Il compromesso costituito dalla riforma Cartabia presenta ‘ombre’ su cui non si riflette e discute. Per esempio, sono trascurati i riti alternativi, che pure sono essenziali per ridurre il numero dei processi in dibattimento. Potenziare la possibilità di ricorrere al patteggiamento e al rito abbreviato avrebbe dato un buon contributo all’eliminazione dei processi che intasano le aule dei tribunali.
In questi contesto, arriva l’allarmata diagnosi del Presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick: «Si riesce a trasformare in un conflitto politico una constatazione di tradimento della Costituzione».
Flick parte dalle violenze subite dai detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere: «Giusto condannare, ma ora c’è bisogno di agire per recuperare una fiducia nella giustizia perduta prima con le vicende elettorali e del Consiglio superiore della magistratura, e con quelle della correntocrazia e degli incarichi direttivi, ora con le vicende dell’organizzazione e dell’esecuzione della pena e con la tortura». Il problema di fondo è superare un clima di sfiducia da parte di quanti a vario titolo (politici, magistrati, avvocati, burocrati in senso ampio, operatori dei media), sono coinvolti nella gestione della giustizia: «La considerazione del detenuto come un ‘diverso senza diritti’ deve essere modificata in tutti: dal livello base, il livello di chi esegue, salendo fino ai vertici, per arrivare al disinteresse della politica. Ho sottomano l’ordinanza di un tribunale di sorveglianza nella quale si dice che per il detenuto l’aver preso una laurea e un master (questa persona ha studiato in carcere) può diventare strumento per commettere altri reati e quindi motivo – non l’unico, per fortuna, – per non concedere la cosiddetta detenzione domiciliare facoltativa per motivi di salute. Un’interpretazione che annulla in un colpo solo le possibilità offerte dall’art 27 della Costituzione e il principio di dignità. È chiaro che qui c’è bisogno di una rieducazione profonda che non riguarda soltanto le ultime ruote del carro ma che riguarda tutti. Riguarda anche noi, che ci indigniamo davanti agli episodi di violenza, ma anche quando vediamo il detenuto che deve uscire per ragioni di salute, come è capitato recentemente durante il lockdown».
Le responsabilità: «C’è stato un tentativo più o meno dilagante di difesa dell’esistente», dice Flick. «Quando il sottosegretario del governo precedente è andato a dire che tutto era regolare, quando il ministro ha spiegato che si trattava del ripristino della legalità, o la catena di informazioni era fasulla, disorganizzata o manchevole, oppure siamo di fronte a complicità o, quantomeno, disinteresse per chi ci sta davanti e/o superficialità».
Valter Vecellio – L’Indro