di Antonio Suraci

camera_deputati_adnL’Italia è governata da un sistema bipolare imperfetto, sebbene oggi sia governata da un sistema tripolare imperfetto anch’esso. Lo è sempre stata e, nonostante la vocazione di alcuni leader che ambivano ad un bipolarismo perfetto, è parte della tradizione politica sin dai tempi del dopoguerra. Nemmeno la nascita di un eventuale terzo polo andrà a modificare tale tradizione.

Difatti, anche il tripolarismo ha rappresentato una fase politica già sperimentata. Il vero cambiamento è stato nel restringimento delle aree bipolari, ovvero nel fatto che molte forze politiche, nate dallo sfaldamento della Democrazia Cristiana e del polo social-comunista, si sono sciolte all’interno di aggregazioni maggioritarie che hanno assunto un ruolo dominante sia sul versante di sinistra che su quello conservatore.

Ma entrambe queste forze, somma di più esperienze culturali e non solo, non rappresentano una novità in assoluto: ciascuna al proprio interno mantiene forme correntizie basate sulla tipica tradizione italiana del far rivivere il proprio patrimonio d’origine all’interno delle macro-aree politiche in cui sono confluite.

Il desiderio di far rinascere un terzo polo o di altra natura, di antica immaginazione e sperimentazione, non rappresenta una novità, ancorché sia una necessità, strategica per aiutare l’Italia a trovare una propria coerente tradizione democratica. I nuovi poli nascono dalla necessità di ridimensionare, in chiave conservatrice, l’arroganza, anche elettorale, dei poli maggiori. Con tale iniziativa, in sostanza, si cerca di attrarre quelle forze conservatrici che oggi rappresentano le ali moderate del bi-tripolarismo. I nuovi poli nascono su basi conservative e difficilmente potranno rappresentare quelle forze moderate che spesso erroneamente vengono considerate conservatrici. Tali poli, sia del Movimento 5stelle o di altra formazione di sinistra o di conservazione di destra, vivono l’aria di una sfiducia dell’elettorato che non trova una idealità nelle formazioni politiche, e spesso rappresentano un sistema politico più verso un revanscismo moderno contrario alla definizione democratica del nostro Paese. La fine delle ideologie e di conseguenza la crisi della politica e della cultura ci spinge a dar vita ad una nuova primavera politica senza replicare quelle scorciatoie che al momento sono rappresentate da altrettante effimere concentrazioni, per nulla spontanee, che non portano, allo stato dell’arte, alcuna originalità utile alla rifondazione della democrazia nel nostro Paese.

Il panorama che si schiude innanzi a noi, non è tra i più esaltanti se consideriamo le necessità di ammodernamento dell’Italia, necessità che non sono solo di natura economica, ma di affermazione e consolidamento dei principi democratici, di giustizia sociale e di una diversa e più rispondente morale sociale dell’insieme della collettività e delle sue diversità.

Il parlamentarismo, di natura proporzionale, è un sistema attraverso il quale si mantiene l’equilibrio tra le diverse istanze della società e i democratici non possono che lavorare per rafforzarlo, attraverso una chiarezza, sia culturale che di prospettiva.

Il riformismo, metodo guida del dibattito parlamentare finalizzato alla risoluzione dei problemi in una prospettiva temporale ponderata, necessita per la propria affermazione di una rivitalizzazione delle formazioni politiche che devono rientrare nell’ambito della Costituzione, in questa o in altra, al fine di garantire, prima che all’esterno, al proprio interno la vita democratica dei partecipanti.

I partiti sono le forze vitali della democrazia, al pari delle altre forme aggregative della società, ma diversamente da queste rappresentano la specificità della democrazia stessa e per questo devono, con maggiore rigore, essere governati attraverso la piena accettazione dei valori costituzionali, al fine di promuovere coerentemente lo sviluppo e il progresso della società presente e futura: un governo coerente ai principi fondanti in un quadro di rispetto dei cittadini nel loro insieme e nella loro diversità.

14/04/2008 ELEZIONI POLITICHE 2008 SI VUOTA UN'URNA DOPO LA CHIUSURA DI UN SEGGIO SCHEDE ELETTORALI © MIMMO CHIANURA / AGF

L’Unità della Nazione è uno dei valori contro i cui detrattori va necessariamente opposta tutta la forza delle nostre idee. Ma opporsi, oggi, non è più sufficiente. Va preso atto, e noi repubblicani avevamo avvisato alleati ed oppositori, che la costruzione centralizzata dello Stato, rigida e per questo distante dalle necessità dei cittadini, avrebbe, prima o poi, fatto scoppiare le contraddizioni. Se la centralizzazione politico-amministrativa dello Stato ha, in diversi momenti storici, garantito lo sviluppo complessivo del benessere sociale, al contempo ha dato corpo a fenomeni di ampia corruzione e a mancanza di sensibilità verso il cittadino che, a causa della concezione cattolica e comunista del passato, è sempre stato considerato appartenente ad una massa e non ricchezza specifica dell’insieme.

La discutibile articolazione territoriale che si è andata delineando nei decenni passati, richiede oggi un cambiamento, una diversa struttura amministrativa che sappia adeguatamente dialogare con le istituzioni internazionali di cui l’Italia fa parte, per meglio sviluppare le potenzialità culturali/ economiche/scientifiche e dare voce alle istanze di una comunità che, sotto molti aspetti, è assai più moderna e autonoma. L’idea dello Stato per i repubblicani non è un’idea astratta: lo Stato rappresenta lo strumento per l’attuazione di quei valori di cui siamo eredi e che nella Costituzione della Repubblica Romana trovano la loro esaltazione.

La disponibilità a discutere le diverse forme organizzative dello Stato, senza escludere il federalismo politico, deve trovare nei repubblicani l’argine alle derive populiste e demagogiche che danneggiano l’intera collettività nazionale. I valori cui fare riferimento, laici e democratici, sono insiti nell’attuale Carta costituzionale e, a qualunque cambiamento si tenda, non potranno esserne accettate modifiche se non in chiave di rafforzamento e adeguamento.

L’Italia è nata su una presunta unità linguistica più che su una identità politica. Tale identità, seppur ancora non forte e consolidata, è opera di quelle minoranze laiche e democratiche che sin dall’Unità si sono battute per gli interessi dell’intero popolo ita- liano. I repubblicani non possono e non devono dimenticare lo scopo della loro esi- stenza e la missione per la quale sono tenuti a lavorare. Se l’Unità della Nazione rap-

presenta il valore supremo, il benessere dei cittadini deve diventare lo scopo della nuova classe dirigente. Questa attenzione al benessere dei cittadini, questa propensio- ne all’attenzione sociale ed a far si che ognuno possa aspirare alla realizzazione della propria vita e quindi alla libertà, ha sempre fatto parte del nostro bagaglio ideale e po- litico, e dovrà essere riaffermato in ogni Sede, anche Europea.

La nuova classe dirigente deve comprendere il cambiamento sociale avvenuto in questi ultimi anni, cambiamento non solo economico, ma morale e di composizione sociale. Se non condividiamo coloro che parlano di una morale di Stato, certo non possiamo non condividere il decadimento in cui oggi ci troviamo.

Decadimento morale che si è tentato arginare attraverso azioni giudiziarie o politiche che ben poco hanno saputo incidere se non sull’immaginario collettivo. La realtà in cui si è costretti a vivere è assai più negativa di quanto i media descrivano.
L’aumento della criminalità organizzata e della micro criminalità, italiana o importata, la violenza urbana che spesso si confonde con quella, in aumento, familiare o parentale, il bullismo dilagante tra le giovani generazioni, la diffusione della droga anche tra gli educatori, la difficoltà da parte della magistratura, per mancanza di mezzi e organici, o delle forze dell’ordine, confusamente organizzate a svolgere gran parte delle funzioni sovrapponendosi, l’economia che cresce generando sacche di evasione o le stesse istituzioni economiche che spesso sono complici dell’economia trasgressiva, impongono una riflessione che deve andare oltre la convegnistica in cui le forze politiche si impegnano. Occorre attivare tutte le azioni necessarie per arginare fenomeni che rischiano di prendere il sopravvento sulla normale vita civile. Definire i ruoli, definire i modelli, definire le normative necessarie a ridare certezza alla vita sociale, rappresentano

le priorità per poter tracciare le linee di sviluppo di una nuova società basata su una riscrittura del patto sociale.

Il nuovo patto sociale non può prescindere da una rivisitazione dell’attuale stato so- ciale, frutto di compromessi decennali e nel contempo vittima di uno spreco finanzia- rio che ha dissanguato lo Stato assistenziale garantendo risultati non soddisfacenti per qualità e quantità. Non possiamo non partire dallo stato attuale delle cose, e in questo stato individuare le responsabilità che non sono sempre soggettive ma spesso sono frutto di elaborazioni socio-economiche errate a difesa di posizioni di rendita politica od elettorale. Dobbiamo avere il coraggio di dire ai cittadini come stiano effettiva- mente le cose, senza timore di apparire – per questo – diversi da quello che siamo. Nessuno può darci lezioni ideali e nemmeno rilasciarci patenti di legittimità, ed allora evitiamo di essere noi stessi ad autolimitarci. Un simile errato atteggiamento, rende- rebbe vano il nostro impegno politico.

Da questa necessaria analisi non è e non deve essere escluso il movimento sindacale, al quale, se pur va riconosciuto il merito di aver contribuito allo sviluppo del processo democratico non solo nel mondo del lavoro, oggi, come ciascun soggetto sociale, vive le contraddizioni sul come e per quale sviluppo è necessario indirizzare la propria azione. Il movimento sindacale deve riappropriarsi, attraverso una nuova lettura del proprio ruolo, della funzione sociale grazie alla quale le nuove

forze del lavoro, nelle diverse specificità dedotte dall’economia contemporanea, possano trovare i necessari interlocutori, attivi sul piano della ricerca di soluzioni innovative e non fermi su posizioni di rendita, anche finanziaria, derivati dai riconoscimenti nel recente passato dallo Stato.

L’invito, nel rivisitare il patto sociale, non può non prendere in considerazione la qualità del benessere che si intende sostenere e/o sviluppare in base alle condizioni interne e internazionali.

L’attuale sistema imprenditoriale, frutto di una evoluzione che parte da ciò che un tempo veniva definita ‘razza padrona’ e arriva a quella contemporanea definibile ‘razza opaca’ fatta di manager non sempre all’altezza dei compiti assegnati, risente di una mancanza di cultura industriale che impedisce la trasformare dell’attuale sistema in un complesso articolato di imprese a vocazione internazionale, in grado di garantire uno benessere collettivo stabile. Oggi come ieri, le imprese fanno ricadere i loro problemi sulla collettività alla ricerca dei finanziamenti necessari ai processi di ristrutturazione e di garanzia del ruolo internazionale.

E’ un sistema industriale non autonomo che con difficoltà si confronta con il mercato globale e che vuole, sempre e comunque, garantirsi una nicchia di sopravvivenza, che spesso diviene ricatto, costringendo lo Stato a politiche fiscali penalizzanti e ad una distrazione delle poche risorse finalizzate allo stato sociale (sanità, scuola, infrastrutture, ecc.).

Nel settore imprenditoriale occorre attuare politiche meritocratiche e di sostegno alle imprese innovative sul piano tecnologico e culturale, nonché alle imprese che manifestino un proprio senso di responsabilità sociale, ambientale e occupazionale. E’ importante, altresì, verificare la qualità delle imprese delocalizzate, il loro inserimento nel territorio di accoglienza, la qualità della produzione e dell’occupazione al fine di dar vita ad un processo economico internazionale virtuoso che in una economia globale può avere ricadute positive sull’economia nazionale.

In questo quadro il Mezzogiorno rappresenta un’opportunità ed una ricchezza di uomini e di intelligenze da incanalare verso nuovi settori di ricerca, scientifici e tecnologici. E’ evidente che, al di là dei giudizi sul passato, per realizzare quanto auspicato gli investimenti pubblici, là dove siano compatibili con le indicazioni europee, saranno fondamentali. L’Unità d’Italia non è compiuta, anzi rischia di non compiersi mai, se il Sud resterà un bacino di drenaggio di ricchezze da utilizzarsi al di fuori del territorio. Il Sud può rappresentare il laboratorio per un modello sociale ed economico avanzato per il cui sviluppo sarà utile coinvolgere le esperienze che nel tempo sono andate ad arricchire società e università estere. L’ampio patrimonio archeologico, culturale e naturale del Mezzogiorno richiede adeguate risorse finanziarie per essere trasformato da scempio sistematico in opportunità economica, con ricadute occupazionali di rilevante entità. A questo deve corrispondere una messa a sistema delle università meridionali che vanno finalizzate a poli di studio e ricerca specifici, abbandonando la strada generalista che sembra caratterizzare

ciascuna aggregazione universitaria.

Quanto è auspicabile per le accademie meridionali, lo è altrettanto per quelle nazionali. Una riqualificazione dei piani di studio e di insegnamento, ridimensionando le enormi quantità di cattedre sorte più sotto un impulso politico che non scientifico, richiede una forte volontà politica. Ai giovani va offerta la migliore prospettiva attraverso una docenza preparata, autonoma dalla politica e sottoposta periodicamente a verifica.

L’istruzione deve continuare ad essere la priorità dell’azione dei repubblicani che in questo campo vantano le migliori intelligenze, sia storiche che viventi, in grado di arricchire ed educare i giovani ai più alti e nobili valori civili e democratici. Anche in questo delicatissimo ambito non dobbiamo fermarci all’obbligatorietà dello Stato nell’istruzione generalizzata. Ferme restando le prerogative educative e i programmi da parte dello Stato, superata la soglia dell’obbligo, l’istruzione può diventare un segmento privato, che garantisca alle future generazioni quella qualificazione che il mondo contemporaneo richiede.

E’ bene ricordare che l’impegno dei repubblicani fu, al sorgere della società contemporanea, non solo quello di organizzare moti di piazza, ma anche quello di concretizzare uno dei presupposti dell’idea democratica: l’educazione. Allora l’educazione era finalizzata ad elevare i protagonisti delle classi lavoratrici a cittadini, oggi ad offrire ai cittadini una qualità di vita sociale in grado di renderli partecipi consapevoli del proprio avvenire e di quello della Nazione.

Da cittadini abbiamo il dovere di utilizzare gli strumenti della comunicazione per informarci e per meglio comprendere le convulse trasformazioni in atto, sapendo che risposte immediate e certe, soprattutto a livello individuale, ancora non ve ne sono. Ma la conoscenza diffusa, fondamento dell’educazione, deve rappresentare il primo obiettivo di una società organizzata su base democratica. L’informazione non deve rimanere patrimonio di poche èlites, pubbliche o private, ma deve essere diffusa e fruita su scala globale.

Anche in questo campo è necessaria quell’onestà intellettuale che ci caratterizza nel definire l’attuale sistema informativo, frutto di un libero mercato, e non di un sistema chiuso e monopolizzato. In questo sistema la qualità dell’informazione, che è alla base dell’educazione, è deludente se non dannosa. I mezzi di informazione risentono delle necessità padronali e non rispondono, anche sul piano professionale dei singoli, a quella libertà a cui il dettato costituzionale si ispira. Le televisioni, pubbliche o commerciali, hanno raggiunto il livello qualitativo più basso della storia dei media nazionali e questo livello non può essere né giustificato né tollerato. La società, almeno quella a cui tendiamo, necessita del concorso di tutti per riportare qualità, verità e trasparenza quali valori condivisi dall’intero corpo sociale.

Le trasformazioni tecnico-scientifiche influenzeranno le scelte della collettività che non dovranno essere riservate al benessere di pochi, ma al bene collettivo. Scienza e

tecnologia hanno già innescato cambiamenti sociali non paragonabili ad altre epoche della storia umana. Il dibattito tra l’utilizzo dei mezzi scientifici e tecnologici e l’educazione permanente dell’uomo in un sistema democratico non sono secondari al mantenimento della pace e alla crescita delle società. Scienza e tecnologia hanno un alto impatto sulla nostra esistenza, in particolare nel campo della scienza della vita. Generano preoccupazione numerosi quesiti, ai quali non sappiamo ancora dare

adeguate risposte, soprattutto in campo politico, portandole a sintesi del comune sentire. La linea di demarcazione è rappresentata da ciò che consideriamo naturale rispetto a ciò che invece può essere modificato dall’uomo. Non da oggi l’uomo ha iniziato ad alterare la natura, ma adesso la scienza e la tecnologia gli offrono la possibilità di modificarne il corso generando soluzioni non ancora supportate dall’elaborazione cosciente delle possibili implicazioni dello sviluppo.

La scienza della vita, l’applicazione dei processi scientifici suscitano sul piano emotivo l’insicurezza sul chi siamo e su dove stiamo andando. Il genere umano sembra percorsa da un brivido filosofico sul come si svilupperà il futuro. Ciò in quanto sono percepibili i contrasti tra i valori e le convinzioni etiche di ciascuno di noi. La linea tra ciò che è naturale e ciò che è naturale cambiare è soggetta a diverse interpretazioni e, prima che una interpretazione basata su un illusorio benessere, e quindi su un concetto erroneo di sviluppo, prenda il sopravvento, è bene che la politica si interroghi per rappresentare il punto di equilibrio di un progresso che non può essere fermato.

Compito della politica è di riappropriarsi di una posizione intermedia ed equilibrata in base alla quale disegnare un modello di sviluppo sostenibile. Da questo discende, nella vita sociale propriamente intesa, l’affermazione di quei nuovi diritti che oggi ap- paiono ancora ai margini dalla società. I repubblicani hanno un grande compito da svolgere, che non è squisitamente etico, ma diviene, per la scuola democratica da cui traggono le proprie convinzioni, la realizzazione di una società che basandosi sulla forza dai valori morali consolidati sappia offrire risposte convincenti sul piano socia- le, economico e istituzionale. E’ indilazionabile che la politica – la più alta e la più nobile delle attività di cui un uomo abbia l’obbligo morale e civile di occuparsi – ri- prenda la sua centralità nella vita del Paese. Se questo processo dovrà assumere con- notati di conflittualità, anche traumatica, con attori della vita civile che hanno esorbi- tato dal loro ruolo, supplendo senza titolo il ruolo proprio della politica, questo non può e non deve fermarci.

Allo stato attuale i valori laici risultano indeboliti, se non confinati, e ciò comporta ingiustizie e incomprensioni intellettuali che generano contraddittori su postulati indimostrabili assai lontani dalla concezione laica. Non dobbiamo abbandonare i nostri valori per meri calcoli o interessi politici e se si ritiene giusta, dopo ampia riflessione, l’affermazione di un diritto occorre lavorare affinché quel diritto emerga e si consolidi.

Si vive in un’epoca in cui tutto può essere messo in discussione e solo il metodo comparativo tra libertà, diritti e interesse umano e/o sociale può aprire la strada ad una diversa felicità. I diritti degli omosessuali, i diritti degli immigrati, i diritti del malato, i diritti di tutti coloro che partecipano alla vita umana anche senza determi- narne il corso, devono trovare nella nostra coscienza il giusto accoglimento per tra- sformarsi in garanzie democratiche a salvaguardia della dignità. Il mondo dei diritti si amplia sempre più e nuove strade si intravedono per consolidarli e renderli universali. Da laici non possiamo e non dobbiamo sottrarci ad accoglierli per trasformarli in re- gole di convivenza che migliorino il rapporto sociale e consentano il raggiungimento di quella serenità a cui l’uomo intimamente tende. In ogni caso deve essere chiaro che l’obbligo di difendere e privilegiare prima di tutto i diritti dei nostri concittadini – e tra loro dei giovani, dei più deboli, dei senza lavoro, e degli anziani – figli come noi del Risorgimento e della Resistenza, non può essere disatteso.

La convinzione della validità dei nostri principi da laici non deve impedirci di dialogare anche con altre istituzioni, anch’esse portatrici di valori universali. Né spingerci ad una guerra sulle diverse interpretazioni della verità dell’una o dell’altra parte. Nella consapevolezza che le verità sono diverse a seconda delle latitudini e longitudini in cui sono venute a maturazione nelle diverse epoche storiche, dobbiamo far sì che il dialogo non venga mai meno, creando semmai le condizioni per lavorare insieme a favore della pace e del bene comuni. Viviamo in una società a vocazione cristiana che si esprime attraverso forme di organizzazione non dissimili da quelle politiche. Ciò crea, e ha creato, problemi politici, giuridici e culturali. Questo, però, non deve impedire la comprensione di quanto viene analizzato e quanto viene offerto sul piano dell’elaborazione e dello studio. Le materie trattate sia dai laici che dai cristiani, o dagli ebrei o dai musulmani o da altri, appartengono a tutti, senza alcuna distinzione. Conoscere e riflettere su questo aiuta il dialogo e consente allo Stato di svolgere quel compito di equilibrio e di educazione che è il suo principale scopo. Anche lo Stato ha la propria universalità composta dai propri cittadini e a questi

deve rispondere senza alcuna possibilità di scelta o di privilegio. Ciò che occorre raf- forzare è che, accanto al riconoscimento di un nuovo diritto che la società laica e de- mocratica ritiene opportuno affermare, vi sia una pari azione educativa sull’utilizzo dello strumento giuridico che viene introdotto nella società. Solo l’educazione deve portare il cittadino ad utilizzare in libertà quello strumento in base alla propria cre- denza, senza imposizioni derivate o visioni etiche non disponibili nei principi fonda- mentali in cui la società democratica si riconosce e ha fatto propri. Nessuna interpre- tazione che non sia corrispondente ai valori costituzionali a cui ci riferiamo per la sal- vaguardia della dignità del cittadino può essere presa in considerazione o mediata a discapito dei principi formali su cui si basa la civile convivenza in Italia o in Europa. La laicità dello Stato non può essere discussa, né emendata o ridotta, in nessun caso e per nessuno. Questo confine rappresenta un “non ultra” che, per noi Repubblicani, deve essere difeso a qualunque costo.

Nel corso dei decenni la scuola repubblicana, e gli stessi obiettivi di scuola liberale, pur muovendo, spesso sono entrate in conflitto sulla specificità di alcune

questioni, in particolar modo sul ruolo dello Stato e sui diritti dei lavoratori. Erano tempi in cui la visione dello sviluppo sociale, in una economia arretrata, poneva diverse interpretazioni, seppur non sempre alternative, ma differenziate sul piano strategico.

Oggi è possibile affermare che le due scuole, che in comune hanno la vittoria storica sui totalitarismi e sui regimi antidemocratici, possono ritrovarsi a lottare unite per l’affermazione dei valori e principi minacciati da una distorta interpretazione delle regole economiche e da una globalizzazione che spesso assomiglia ad una rivincita storica del colonialismo.

Nel nostro pensiero democratico deve confluire un’unica e innovativa visione democratica, che affonda le proprie radici nei principi fondamentali della Costituzione della Repubblica Romana, nei Doveri e nei diritti dell’uomo, nel Manifesto e nella Dichiarazione di Oxford. La qualità della libertà nelle società aperte è il primo obiettivo che i democratici devono porsi per vincere le molte sfide che la società contemporanea deve ancora affrontare.

Il nostro compito democratico del XXI secolo è quello di dare a queste nuove sfide delle risposte politiche che favoriscano la libertà individuale e i diritti umani, le società e le economie aperte, la cooperazione globale. Il superamento dello ‘steccato’ ideologico tra stato di diritto e stato sociale, che divise nel corso della storia moderna i democratici dai liberali, oggi è giunto ad una sintesi attraverso la quale il pensiero liberademocratico informa le società occidentali pur nelle diverse sfumature istituzionali.

Il problema che si pone è quello di ridisegnare il modello dello stato sociale coniugando la prassi riformatrice con il disegno di riformulazione delle istituzioni statuali in una economia aperta e finalizzata al benessere collettivo, attraverso un più partecipato ruolo sociale dell’impresa.

Conclusa la fase del modello particolaristico liberale e dell’idealismo democratico, oggi si pone il problema di liberalizzare la società ponendo al centro l’individuo quale prodotto derivato della società di massa, per la cui riqualificazione occorre attivare un processo permanente di riformismo di matrice democratica, grazie al quale sia possibile favorire la crescita delle diverse realtà sociali per il superamento di quelle logiche sub-culturali affermatesi nel secolo passato.

Nessuna forza politica presente nel panorama italiano attuale rappresenta una reale forza riformista. Per riformismo deve intendersi un metodo politico di gestione della società democratica e non una ideologia in sostituzione di quelle di derivazione tardo ottocento. Tutte le forze che si definiscono riformiste risultano sostanzialmente autoreferenziali in quanto con tale definizione intendono comunicare il loro distacco dalla matrice ideologica di provenienza nel tentativo di accreditarsi quali nuove tendenze di pensiero al servizio della trasformazione della società nel panorama globale.

Di fatto non sono altro che trasformazioni, spesso camuffate, delle vecchie ideologie

depurate dell’assolutismo intellettuale che le ha caratterizzate nel passato. Riformismo non è solo la ricerca di un consenso attraverso una mediazione politico/culturale ma l’unico posto, immaginandolo fisicamente, deputato alla mediazione democratica. Il riformismo è, quindi, sì la ricerca del consenso ma finalizzato alla trasformazione del modello sociale preesistente. Ciò a dire che il modello sociale è già ben individuato quale contenitore di valori inalienabili, per la piena attuazione dei quali occorre realizzare un modello istituzionale innovativo finalizzato al progresso della società.

In questo sta l’equivoco della politica italiana e di quelle forze che, senza abbandonare le ambiguità della propria origine, affermano di ispirarsi ai principi riformisti della liberal-democrazia impedendone, di fatto, l’affermazione unitamente alle forze politiche che hanno dato origine a quei principi.

La proposta politica che il Partito repubblicano deve avanzare è quella di dar vita ad una forza democratica, senza che questa venga intesa come un ulteriore Terzo polo. Deve essere percepita come priorità per uscire dalle ambiguità politiche e culturali in cui la comunità è stata costretta a vivere negli ultimi 25 anni. Il recupero della democrazia, prossima alla deriva, per i repubblicani e per tutte le forze che si riconoscono nel nostro progetto, deve rappresentare la priorità rispetto alle alleanze di corto respiro. Ciò non impedisce e non deve impedire la ricerca di alleanze finalizzate alla temporaneità dell’azione contingente, ma questa non può trasformarsi in visione strategica annullando gli sforzi che congiuntamente dovranno essere realizzati.

Per la realizzazione di questo progetto occorre coinvolgere le forze vive della società: associazioni, sindacati, studenti, imprese e tutti coloro a cui stanno a cuore le sorti del Paese.
Il Partito repubblicano deve ritrovare la propria spinta propulsiva al proprio interno individuando una classe dirigente in grado di offrire le risposte adeguate sia ai partecipanti la vita di partito che a quanti vivono all’esterno di questa. Il rinnovamento non è una richiesta, ma una necessità che discende da quanto i repubblicani ritengono valido il loro progetto democratico. Nella consapevolezza di essere prossimi alla fine, non possiamo non batterci con tutte le forze perchè la gloriosa forza politica che rappresentiamo, e che ha saputo difendere la debole democrazia votata non più tardi di sei decenni or sono, si riaffermi in una nuova stagione democratica. Non sarà la ricerca forzata dell’unità interna che ci trasporterà verso la nuova stagione, ma solo la capacità di dialogare con la società e le forze vive di questa aiuteranno i repubblicani a tornare attori politici nell’interesse del Paese e del partito.

Negli ultimi quindici anni il partito ha stretto alleanze con le diverse forze del panorama politico italiano.
Le discussioni sono state spesso aspre ed hanno visto molti amici emigrare a sinistra e a destra o dar vita a gruppi repubblicani autonomi. Il mondo repubblicano, oggi, ap- pare un insieme di piccole galassie tra loro distanti anni luce anche se ciascuna fa ri-

ferimento al modello mazziniano originale. Ma l’unico modello originale è e rimane il Partito repubblicano. Ciò significa che dovremo riprendere con umiltà, ma con deter- minazione, la difesa di quei valori di democrazia laica che spesso abbiamo difeso con voce troppo flebile. Le alleanze fanno parte della tattica che il futuro ci riserva, ciò che dobbiamo definire al 48° Congresso, con accuratezza e convinzione, è il fine e la strategia per perseguirlo. Stabilire la rotta, tenendo ben ferma la barra, è la condizione per muoverci tutti uniti per la salvezza del partito e per tornare ad essere protagonisti attivi della politica italiana. Per far ciò occorre riprendere una nostra autonomia di giudizio e una nostra libertà di proposta a prescindere dalle alleanze che l’attuale e difficile congiuntura politica ci consiglierà di realizzare. Ogni collocazione del Parti- to, ed ogni discussione sul suo ruolo, non può prescindere dall’appartenenza e dalla militanza nel Partito stesso. Coloro che hanno scelto volontariamente altre strade, co- loro che sono volontariamente usciti dal Partito, non hanno titolo alcuno di critica nei confronti delle scelte del Partito Repubblicano Italiano, come nei confronti di qualun- que altra formazione politica cui siano esterni e quindi estranei. I tanti repubblicani che invece hanno continuato a spendersi ed a sacrificarsi nel Partito e per il Partito, devono recuperare la fiducia nelle scelte che gli Organi democraticamente eletti ope- rano, e l’abitudine ad utilizzare i mezzi e le dinamiche interne che il Partito mette a disposizione, nell’ottica del reciproco ed imprescindibile contributo che maggioranza ed opposizione, assicurano alla crescita del P.R.I.