La photo opportunity e le strette di mano del nostro presidente del Consiglio e del ministro degli esteri con il mandante e regista del sequestro dei 18 pescatori di Mazara del Vallo è in assoluto il punto più basso della nostra credibilità internazionale. Costringendo Conte e Di Maio alle foto, alle strette di mano e ad un colloquio politico pur di riavere indietro gli ostaggi, Haftar ha ottenuto un nuovo riconoscimento come attore di peso nello scenario libico. E lo ha ottenuto proprio da coloro che tre mesi fa avevano osato snobbarlo
Oramai ci siamo piuttosto abituati: nei casi di sequestri internazionali, una gioia, una festa per le famiglie e per noi italiani, sapere che dei nostri connazionali rapiti possono tornare a casa e riabbracciare i loro cari, per il Paese si trasforma puntualmente in una cocente umiliazione, una netta perdita di credibilità. Vuoi perché i rapitori sono riusciti a ottenere quello che volevano, il più delle volte soldi che useranno per mettere in pericolo altre vite umane; vuoi perché i nostri governi si sono piegati a spettacoli indecorosi, come nell’ultimo caso prima di questo, il ritorno di Silvia Romano.
Non solo furono pagati milioni ai terroristi islamici di al Shabaab, affiliati ad al Qaeda e tra i più sanguinari, autori in Africa di stragi orrende di uomini, donne e bambini. Il nostro premier e il nostro ministro degli esteri si prestarono anche alla propaganda jihadista: l’immagine della ragazza, convertita all’islam durante la prigionia, mentre scendeva dall’aereo ricoperta dalla testa ai piedi con un lenzuolo verde, la tunica indossata dalle donne somale islamizzate, fu di per sé un spot politico senza prezzo per al Shabaab.
Ma veniamo a ieri, al caso dei 18 pescatori di Mazara del Vallo da 108 giorni rinchiusi a Bengasi, il sequestro più lungo per mano libica che l’Italia ricordi.
Conte e Di Maio non sono riusciti a farsi fotografare con gli ostaggi liberati, che non hanno nemmeno potuto incontrare. La photo opportunity l’hanno avuta – un inedito assoluto – con il capo dei sequestratori, il generale Khalifa Haftar. Non ci eravamo ancora mai abbassati a tanto.
È come, per intenderci, se Craxi, oltre a impedire agli americani di catturare Abu Abbas, il regista del sequestro della nave Achille Lauro, si fosse fatto fotografare con il terrorista palestinese a bordo della pista di Sigonella.
Superfluo sottolineare la vittoria politica di Haftar, il cui peso internazionale si era considerevolmente ridotto dopo la sconfitta della campagna di Tripoli. Anche molti dei suoi sponsor negli ultimi mesi avevano preso le distanze. Costringendo premier e ministro degli esteri italiani alle foto, alle strette di mano e ad un colloquio politico (“il governo continua a sostenere con fermezza il processo di stabilizzazione della Libia, è ciò che io e il presidente Giuseppe Conte abbiamo ribadito oggi stesso ad Haftar, durante il nostro colloquio a Bengasi”, ha dichiarato Di Maio), pur di riavere indietro gli ostaggi, ha ottenuto un nuovo riconoscimento come attore di peso, comunque non trascurabile, nello scenario libico. E lo ha ottenuto proprio da coloro che tre mesi fa avevano osato snobbarlo.
Come ricordava ieri Mauro Indelicato su InsideOver, infatti, il sequestro dei pescherecci Medinea e Antartide e dei loro equipaggi, il primo settembre scorso, avveniva proprio mentre il nostro ministro degli esteri si trovava in viaggio di ritorno verso Roma dopo una visita in Libia, prima a Tripoli poi in Cirenaica. Dove però aveva deciso di non incontrare il generale Haftar, da poco ritiratosi dalla Tripolitania, bensì il presidente del Parlamento di Tobruk, Aguila Saleh, ritenuto “l’uomo nuovo della Cirenaica” dopo il fato avverso che aveva colpito il generale. Comunque un “affronto” inaccettabile per Haftar. In quelle ore probabilmente prendeva corpo l’idea del sequestro, concluso con la “riparazione” in termini di riconoscimento politico pretesa, e ieri ottenuta, da Roma.
Un errore non averlo incontrato a settembre? Può darsi, ma una scelta che aveva una sua logica e che andava difesa. Invece, abbiamo calato le brache. E non è nemmeno detto che quello politico sia stato l’unico riscatto pagato al generale.
La contropartita potrebbe essere stata integrata con denaro o con la liberazione di qualche tagliagole libico dalle nostre carceri. Era nota, infatti, la richiesta di Haftar di liberare cinque libici detenuti nel nostro Paese dopo essere stati condannati per tratta di esseri umani e per l’omicidio di 49 migranti.
In ogni caso, l’ennesima capitolazione che mette ancor più a rischio gli italiani che si trovano all’estero, per lavoro o per turismo.
L’aspetto patetico della vicenda è che magari Conte e Di Maio hanno persino pensato ad un ritorno di immagine, a ridosso del Natale e in un momento particolarmente delicato per il governo. Ma diversamente dal rientro di Silvia Romano, stavolta la foto l’hanno fatta con il capo dei rapitori, non con i rapiti tornati in Italia.
Ma esistevano delle alternative per riportare a casa sani e salvi i 18 pescatori? Certamente: potevamo liberarli con la forza militare. Abbiamo una delle marine militari più potenti del Mediterraneo e corpi d’elite di assoluta eccellenza, ma non li usiamo. Un’operazione ad un tiro di schioppo. Sapevamo persino dove sono rimasti rinchiusi gli ostaggi per tutti i 108 giorni di prigionia (nella palazzina dell’amministrazione portuale di Bengasi).
Forse, sarebbe bastata la sola minaccia, una dichiarazione credibile che l’opzione sarebbe rimasta sul tavolo e che chiunque rapisca un cittadino italiano diventa un legittimo bersaglio militare. Non è solo una questione di attributi della nostra classe politica, ma di mancanza della minima cognizione dell’interesse e della dignità nazionali. A quanto pare, la massima aspirazione dei nostri governanti in politica estera sono le onorificenze della Repubblica francese…
Resta un altro particolare umiliante. Come detto, Conte e Di Maio non hanno potuto farsi fotografare con i 18 pescatori, perché non li hanno potuti incontrare. Né quindi se li sono riportati con loro in Italia in aereo, come sarebbe stato lecito attendersi. No, dovranno tornare via mare a bordo dei loro pescherecci. I cui motori, guarda caso, sono in panne, non si avviano. Dunque, ancora nessun rientro, nessun abbraccio con i famigliari, ancora attesa. E chissà che dopo l’umiliazione politica di ieri, non arrivi anche la vera e propria sòla, come si dice a Roma.