Maggioranza Ursula ancora numericamente possibile ma politicamente indecente e sempre più impervia. Occasione storica per una virata a destra dell’Ue
Si è aperta una fase rivoluzionaria per l’Europa, il cui esito però presenta ancora margini di incertezza. La “maggioranza Ursula” uscente è ancora numericamente possibile ma sarebbe non solo politicamente indecente. Potrebbe essere anche molto impervia.
Chi fa correttamente notare che tutto sommato nella composizione del nuovo Parlamento europeo non si è registrato alcuno smottamento, mentre ad essere stati travolti sono solo i governi nazionali di Francia e Germania, dimentica due fattori dell’equazione. Primo, l’anomalia della “grande coalizione” Popolari-Socialisti, che funge da blocco del sistema europeo ma che non è scritta sulla pietra e, anzi, è ormai anti-storica, politicamente insostenibile anche a Bruxelles, dopo essere stata archiviata a Berlino, dove non sembra destinata a tornare nel prossimo futuro.
Secondo, il Parlamento europeo come istituzione non è concepito dai Trattati per garantire stabilità “governativa”, quindi per dare vita a maggioranze politicamente omogenee che riflettano il minimo cambiamento nel mood dell’elettorato, ma la massima rappresentatività con un sistema proporzionale puro. Perché l’Ue non è ancora uno Stato (per fortuna), il modello è ancora inter-governativo, per questo non può nascere una Commissione “contro” i governi nazionali. Il presidente della Commissione lo designano i governi e sono i governi dei principali Paesi che poi costruiscono una maggioranza in Parlamento. E alla fine sono sempre i governi nazionali (il Consiglio) a mandare avanti la legislazione Ue, o viceversa bloccarla o stravolgerla.
La partita a Parigi e Berlino
Per questo ora, dalle urne europee, l’attenzione si sposta su quelle francesi. Se dal 7 luglio, come molti analisti si aspettano, uscirà il primo governo di Rassemblement National a Parigi, e il presidente Emmanuel Macron sarà costretto a nominare un primo ministro di destra, magari proprio il suo segretario Jordan Bardella, sarà molto difficile dar vita a Bruxelles ad una Commissione “contro” Le Pen e Meloni, cioè “contro” i governi di Parigi e Roma.
Né si possono ignorare, tra l’altro, il governo già di destra della piccola ma influente Olanda e le dimissioni in lacrime del premier macroniano Alexander De Croo in Belgio, dove si sono tenute anche le elezioni parlamentari che hanno premiato le forze di destra.
La partita, dunque, si sposta a Parigi. E a Berlino, dove tra un anno si vota e il partito del cancelliere Scholz ci arriverà da terzo al 14 per cento, cioè da morto che cammina. Molto lucidamente, nel suo corsivo di ieri Musso ci invitava a guardare a cosa sta per accadere in Francia e Germania, senza perderci nei conteggi del seggio in più o in meno al prossimo Parlamento europeo. Anche perché i gruppi a Bruxelles sono piuttosto liquidi. Il gruppo macroniano Renew Europe, già molto eterogeneo, potrebbe sfaldarsi alla luce della disfatta di Macron e altre componenti potrebbero traslocare verso il campo del centrodestra, spostando gli equilibri.
Meloni “queenmaker”
Insomma, come avevamo ipotizzato, sembra che gli astri si stiano allineando a favore di uno scenario in cui 1) sarà il PPE ovviamente a guidare le danze e ad esprimere il nuovo presidente della Commissione (Von der Leyen o un’altra figura), ma 2) sarà Giorgia Meloni, unico capo di governo dei tre Paesi maggiori a non uscire con le ossa rotte e anzi rafforzata dalle urne, a trovarsi nella posizione di “queenmaker”.
La premier italiana può imporsi come personalità centrale, anche grazie agli intelligenti passi compiuti in questi due anni, per mediare tra lo stesso PPE e una Le Pen che sta melonizzandosi, alla ricerca di una nuova formula politica. Certo, dovrà essere granitica, d’acciaio la sua determinazione a non farsi risucchiare come stampella dell’attuale “maggioranza Ursula”, accettando di governare in Europa al traino dei Socialisti. Nessuno le regalerà alcunché, ma ci sono le condizioni per giocare fino in fondo la partita per un centrodestra europeo o per una decisa virata a destra dell’asse politico del Consiglio e del Parlamento europei.
D’altronde, questa “maggioranza Ursula” nasce nel 2019, un’era politica fa, quando a Berlino c’era ancora Angela Merkel con la sua “Grande Coalizione”, la cancelliera che sbagliò tutto – immigrazione, energia, rapporti con Russia e Cina… E già allora la “maggioranza Ursula” riuscì a garantire la conferma della presidente designata Von der Leyen per soli 9 voti.
Oggi come allora, spetta al PPE, e quindi alla CDU tedesca – che certo non ha alcun interesse a lanciare salvagenti ai due sconfitti – trovare la nuova formula. Ma la logica politica impone di non far finta che nulla sia accaduto. Anche perché tra un anno si vota anche in Germania e quindi la CDU non può rischiare di farsi erodere consensi alla sua destra, da AfD, permettendo che a Bruxelles sopravvivano la stessa maggioranza e la stessa agenda che hanno provocato le disfatte di Scholz e Macron, doppiati dalle loro rispettive opposizioni.
La Baronessa
Sebbene abbiamo una opinione pessima di Ursula Von der Leyen, la destra non deve commettere l’errore di coltivare l’ossessione del suo nome e farne uno spauracchio: la Baronessa in fondo non è portatrice di una sua agenda ma di equilibri politici, come si è visto nell’ultima fase di questa legislatura europea con il cambio di tono sull’immigrazione e le frenate sull’agenda green, strumentali alla sua ambizione di correre per un secondo mandato.
Come osserva Musso, non dovrebbe sorprendere la “circostanza che quella stessa Ursula Von der Leyen un tempo emblema de leuropeismo anti-sovranista possa gestire una maggioranza che disfa il gretinismo e quanto de Leuropa ostacola l’atlantismo”. E “se non sarà Von der Leyen, sarà comunque una parente sua. Poco importa chi, in fondo”.
Federico Punzi – Atlantico