Il centrodestra sbaglia candidato (come a Roma e Milano), ma è ancora in salute (per ora). Buona la prima del “campo largo” di Schlein, ma a trazione grillina
Dopo un serrato testa a testa durato un’intera giornata, a tarda serata è arrivato il verdetto: la deputata grillina Alessandra Todde vince per un pugno di voti le elezioni regionali in Sardegna, battendo il candidato del centrodestra Paolo Truzzu, sindaco di Cagliari.
Ora, c’è da scommettere che le opposizioni e la stampa progressista si scateneranno per attribuire al voto un valore nazionale: finita la luna di miele tra Giorgia Meloni e gli italiani, prima bocciatura per il governo, è cambiato il vento, riscossa civile e morale, viva l’Italia antifascista, Bella Ciao e quant’altro dell’armamentario retorico della sinistra.
Candidato sbagliato
Ci pare tuttavia azzardato attribuire alla sconfitta di misura in Sardegna un segnale di controtendenza a livello nazionale. Parliamo di una sola regione, nemmeno un milione di elettori (700 mila), ma soprattutto, basta leggere i numeri: Truzzu ha preso quasi 4 punti percentuali in meno rispetto alle liste della sua coalizione (45 per cento contro 48,8), mentre al contrario Todde quasi 3 punti percentuali in più (45,4 contro 42,6).
Ciò significa che la sinistra ha scelto un candidato che ha saputo andare oltre i confini della sua coalizione, mentre il centrodestra ne ha scelto uno che non ha convinto nemmeno i suoi elettori. Quando poi un sindaco perde nella sua città, Cagliari, con 20 punti percentuali di scarto, non serve aggiungere altro.
Il dato è persino banale: il centrodestra ha sbagliato candidato. Questo ovviamente non rende la sconfitta meno grave e le scosse si avvertiranno anche a Roma. Possibile che nessuno si sia accorto di quanto Truzzu fosse impopolare nella sua stessa città? Qui non ci interessa indagarne i motivi – litigiosità interna, invidie tra leader – ma osserviamo che sbagliare clamorosamente candidato sta diventando una triste abitudine per il centrodestra, un copione già scritto, come a Roma e Milano.
Eppure, la coalizione è in salute, sfiora il 49 per cento, più o meno quanto gli attribuiscono i sondaggi su base nazionale e circa 5 punti in più delle politiche del 2022.
Le vere midterm per Meloni
Detto questo, il vero esame di midterm per il governo Meloni, il giudizio che può decretare la fine della luna di miele con gli italiani, saranno le elezioni europee. La maggioranza di centrodestra potrebbe sopravvivere anche ad un risultato deludente, ma – appunto – sopravvivere.
Se già con il vento in poppa delle politiche e la forte legittimazione personale di Giorgia Meloni non ha saputo sfruttare il “momentum”, non brillando certo per coraggio e spinta al cambiamento in questi primi 16 mesi di governo, figuriamoci se il vento dovesse arrestarsi, se il voto non dovesse soddisfare le aspettative e la premier Meloni essere costretta a scelte umilianti nella nuova legislatura europea.
Non ci pare, fino a questo momento, che Fratelli d’Italia e la sua leader siano entrati in campagna elettorale, che abbiano individuato e concentrato le forze su due-tre temi forti su cui mobilitare gli elettori di centrodestra. Dalle politiche climatiche (e il loro impatto su industria e agricoltura) all’immigrazione, l’approccio è ancora timido, non di sfida aperta e radicale alle narrazioni della sinistra.
Sorride Conte più di Schlein
Alcune indicazioni di carattere nazionale dal voto sardo si possono trarre e riguardano la sinistra – ma anche qui nessuna novità, solo conferme di cose che già sapevamo. Pd e 5 Stelle (con Sinistra e Verdi), sommando i loro voti, riescono effettivamente ad essere più competitivi, superando la soglia psicologica del 40 per cento.
Certo, la vittoria in Sardegna rafforza la linea della segreteria Schlein, il “campo largo” con il Movimento 5 Stelle, ma evidenzia anche un problema non trascurabile che molti avevano già intuito: a vincere è stata una candidata presidente grillina, che ha raccolto quasi 3 punti percentuali in più delle liste – punti decisivi. Entusiasmo fuori luogo quindi, 42,6 per cento è poco più della somma delle percentuali che già avevano alle politiche. E non sarebbe bastata, senza un front-runner grillino.
Il Pd potrebbe ritrovarsi nella bizzarra posizione di primo partito di una coalizione che però è competitiva solo con un candidato 5 Stelle. A livello nazionale questo potrebbe avere un significato amaro per il Pd: che il candidato premier dovrà essere Giuseppe Conte.
Federico Punzi – Atlantico