Un discorso politico ma istituzionale, ben poco “draghiano”. Principi liberali in ambito fiscale, economico e sanitario. Due debolezze: europeismo ed ecologismo
“Non indietreggeremo, non getteremo la spugna, non tradiremo”, ha concluso così Giorgia Meloni il suo primo discorso da presidente del Consiglio alla Camera, definendosi una underdog, consapevole cioè di avere contro i pronostici ma determinata a stravolgerli, “ancora una volta”.
E suona, questo, come un forte messaggio alla nazione. A quella Italia che è anch’essa una eterna underdog, che ancora una volta ha contro la durezza della realtà economica, ma che è chiamata a credere nella possibilità di stravolgere i pronostici e rialzarsi.
Discorso politico e istituzionale
Un discorso inattaccabile quello del presidente del Consiglio, perché di parte, profondamente politico come non se ne sentivano da tempo, ma al tempo stesso istituzionale. Rispettoso delle opposizioni, sia pure nella netta distinzione dei ruoli, e della collocazione internazionale dell’Italia, e consapevole del dovere di agire nell’interesse di tutti gli italiani.
Netto, non richiesto ma offerto, il ripudio del fascismo, a scanso di equivoci: “Non ho mai provato simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici. Per nessun regime, fascismo compreso”.
Si è percepita, quasi toccata con mano, molto più che in altri discorsi programmatici – e questo è un buon segnale – la gravitas, nel senso romano del termine (dignità, dovere), così come la consapevolezza del peso delle responsabilità e della gravità del momento. E si è percepita, anche in questo caso a differenza di molti suoi predecessori, la passione politica.
Consapevolezza della posta in gioco e della libertà di fare ciò che si deve. A costo di “non fare il governo”, aveva detto Meloni la settimana scorsa. “A costo di non essere rieletta”, ha detto oggi.
Poco draghiano
Se il metro di giudizio dev’essere l’aderenza o meno ad un non meglio precisato draghismo, diciamo subito che a noi il discorso non è sembrato molto draghiano, qualsiasi cosa ciò significhi.
Il problema di questo criterio è che si tratta di un topos giornalistico. Il governo Draghi infatti è stato per lo più un cassetto vuoto. E non è facile ravvisare continuità o discontinuità rispetto ad un cassetto vuoto.
Draghi verrà ricordato sostanzialmente per cinque cose: il Green Pass (“la certezza di trovarsi tra persone non contagiose…” sic!), il goffo tentativo di farsi eleggere presidente della Repubblica, il tentativo fallito di riformare il catasto, il tentativo fallito di ottenere il price cap dall’Ue, l’ottenimento delle tranche del Pnrr grazie non a chissà quali riforme, ma al favore personale di cui godeva a Bruxelles.
L’eredità draghiana sta nella collocazione internazionale dell’Italia nella cornice europea e atlantica? Allora è ben poca cosa. Si tratta infatti di una eredità comune a tutti i governi, con le brevi eccezioni dei governi giallo-verde e giallo-rosso – governi di cui, tra l’altro, Meloni – unica fra tutti – non ha fatto parte. Di che parliamo? L’atlantismo non appartiene di certo solo a Draghi.
La continuità con Draghi, almeno a parole, non sembra esserci nemmeno sul modo di interpretare la nostra appartenenza all’Unione europea da Paese fondatore. Meloni ha sì, chiaramente, voluto rassicurare sul rispetto delle attuali regole, ma ha anche accennato ad una postura meno accondiscendente e ad una idea di Europa basata sulle diversità nazionali piuttosto che sulla tendenza all’omologazione.
Due debolezze: europeismo ed ecologismo
Che poi questa intenzione si traduca in fatti e risultati è un altro paio di maniche. Come abbiamo già osservato, crediamo manchi nelle corde di questo governo, del premier e dei ministri, un sano euroscetticismo thatcheriano.
Intravediamo invece ancora illusioni eccessive rispetto alla costruzione e all’integrazione europea, nonché rispetto alle proprietà taumaturgiche della spesa pubblica intermediata o autorizzata da Bruxelles.
Ma per lo meno dal discorso programmatico è emersa la consapevolezza di Meloni dei fallimenti dell’Ue e della necessità di una difesa più muscolare dell’interesse nazionale.
Tuttavia, tutti i buoni propositi e principi enunciati rischiano di restare sulla carta sulla quale erano scritti, se il governo Meloni non saprà sottrarsi al rischio “pilota automatico”, se non saprà evitare appiattimenti e cedimenti.
In linea di principio ineccepibile il ripudio dell’ambientalismo ideologico e il riferimento all’ecologismo conservatore di Roger Scruton: l’idea di salvaguardare la natura ma “con dentro l’uomo” è in netta contrapposizione con il climatismo gretino, che vede invece nell’uomo solo una fonte di corruzione e inquinamento della natura.
La conseguenza pratica dovrebbe però essere un esplicito ripudio della transizione ecologica così come impostata da Bruxelles e dai governi europei. Questo non lo abbiamo invece avvertito con sufficiente chiarezza, nonostante il positivo accenno ai “giacimenti di gas nel Mediterraneo che abbiamo il dovere di sfruttare appieno”.
Principi liberali
Se non nella compagine di governo, almeno nel discorso programmatico sono risuonati per ben tre volte i principi liberali. Innanzitutto, nella concezione enunciata del rapporto tra Stato e cittadino in ambito fiscale, economico e sanitario.
Il motto di questo governo, ha detto Meloni, sarà “non disturbare chi vuole fare”. “La ricchezza di questo Paese la fanno le aziende con i loro lavoratori, non lo Stato con la sua burocrazia e i suoi editti”. Ha quindi accennato ad un nuovo “patto fiscale”, ad un nuovo criterio guida nel valutare i risultati della Agenzia delle Entrate. Misurati gli impegni a ridurre le tasse, ma d’altronde la situazione sconsigliava fughe in avanti.
Non sarebbe comunque trascurabile se il governo riuscisse a dare almeno un segnale in questo senso nella prima legge di bilancio, con la citata estensione della tassa piatta per le partite partite Iva e, per tutti, sugli incrementi di reddito, e una “tregua fiscale” per imprese e cittadini.
Un secondo importante principio liberale è stato affermato con riferimento alle restrizioni pandemiche dell’ultimo biennio, un modello che, ha assicurato Meloni, “non replicheremo in nessun caso”.
“L’Italia ha adottato le misure più restrittive dell’intero Occidente, arrivando a limitare fortemente le libertà fondamentali di persone e attività economiche, ma nonostante questo è tra gli Stati che hanno registrato i peggiori dati in termini di mortalità e contagi. Qualcosa, decisamente, non ha funzionato e dunque voglio dire fin d’ora che non replicheremo in nessun caso quel modello. L’informazione corretta, la prevenzione e la responsabilizzazione sono più efficaci della coercizione, in tutti gli ambiti. E l’ascolto dei medici sul campo è più prezioso delle linee guida scritte da qualche burocrate, quando si ha a che fare con pazienti in carne ed ossa”.
Un passaggio perfetto.
Terzo, la difesa della libertà e l’adesione al campo occidentale in politica estera, la necessità di “coniugare l’interesse nazionale con il destino comune europeo occidentale”, fondato sulle “radici classiche e giudaico-cristiane dell’Europa”.
“L’Alleanza Atlantica garantisce alle nostre democrazie un quadro di pace e sicurezza che troppo spesso diamo per scontato. È dovere dell’Italia contribuirvi pienamente, perché, ci piaccia o no, la libertà ha un costo e quel costo per uno Stato è la capacità che ha di difendersi e l’affidabilità che dimostra nel quadro delle alleanze di cui fa parte”.
E in particolare, ha sottolineato, “sbaglia chi crede sia possibile barattare la libertà dell’Ucraina con la nostra tranquillità. Cedere al ricatto di Putin sull’energia non risolverebbe il problema, lo aggraverebbe…”
Questi principi sono stati impreziositi e completati con una citazione finale: “Diceva Montesquieu che la libertà è quel bene che fa godere di ogni altro bene. La libertà è il fondamento di una vera società delle opportunità. È la libertà che deve guidare il nostro agire. Libertà di essere, di fare, di produrre”, ha detto Meloni, aggiungendo: “Vedremo alla prova dei fatti, anche su diritti civili e aborto, chi mentiva e chi diceva la verità”.
Il discorso programmatico di una destra moderata, protettiva più che protezionista. Non liberale ma forse sufficientemente pragmatica per rendersi conto che l’iniziativa privata va incoraggiata anziché vessata. E questa sarebbe già una rivoluzione.
Federico Punzi – Atlantico