Giorgia Meloni gioca la carta della moderazione, consapevole che Washington, Bruxelles, Quirinale e mercati sono in cauta attesa, consapevole che l’economia nel 2023 la metterà alla prova. Il PD alla prova del rinnovamento tra false ‘giustificazioni’ per i fallimenti tattici e strategici del gruppo dirigente e rievocazione del Partito Radicale di Massa
Attendiamo pure tutti i necessari passaggi istituzionali: elezione dei Presidenti di Senato e Camera (già qui comunque sarà un utile cartina di tornasole per capire come intendono muoversi Giorgia Meloni, e in generale la maggioranza di destra-centro: se con qualche intesa con l’opposizione, oppure all’insegna del: ‘qui siamo qui prendiamo’); rapido giro di consultazioni che avrà come esito scontato: nessuno si potrà esimere dall’indicare in Meloni la persona incaricata di formare il nuovo Governo. Ecco che si arriva al punto nodale: la lista dei ministri (poi verranno sottosegretari, ecc.., importanti ai fini della distribuzione delle postazioni di potere, ma non determinanti per quello che riguarda gli equilibri del medesimo). Meloni deve innanzitutto rassicurare l’attuale inquilino della Casa Bianca.
Dalla fine della seconda Guerra mondiale, e con il conflitto in corso, con gli accordi di Yalta stipulati da Churchill, Roosevelt e Stalin, si è stabilito che l’Italia appartiene al blocco occidentale. Lo aveva ben chiaro Palmiro Togliatti, che, tornato da Mosca, per prima cosa tagliò unghie e dita a quanti nel PCI coltivavano velleità rivoluzionarie e di annessione al blocco guidato dall’allora URSS. Da allora (e si parla degli anni 40-50 del secolo scorso), questo ‘patto’ non è mai stato messo in discussione. Tanto meno oggi.
Le pulsioni di ‘simpatia’ o altro che ci possono essere state (mille condizionali e nessuna certezza, per quel che ci e’ dato sapere) di un Silvio Berlusconi prima, di un Matteo Salvini poi, certamente hanno messo in sospetto i centri del potere reale di Washington. Per la Casa Bianca sono, nei fatti, ‘inaffidabili’, al di là dei sorrisi di prammatica che ci possono essere nelle fotografie di rito.
Per Meloni il caso è diverso. Lei non ha mai flirtato con Mosca e con Vladimir Putin. Da questo punto di vista ha le carte in regola. Le fotografie che di recente l’ambasciata russa di Roma ha diffuso per ricordare che molti politici di primo piano, a livello istituzionale o politico, hanno ‘stretto la mano’ a Putin (un evidente segnale: ‘state attenti a quello che dite, sopratutto a quello che fate’), non vedono la presenza della leader di Fratelli d’Italia).
A Washington la diffidenza è di altra natura: Meloni si è esposta molto, troppo, sul fronte Donald Trump; a lui ha fatto riferimento fino a qualche mese fa; il discusso e discutibile consigliere principe di Trump, Steve Bannon, fino a ieri era un punto di riferimento di Meloni. L’attuale leadership alla Casa Bianca, il Presidente Joe Biden e il suo entourage, devono ancora convincersi dell’affidabilità di Meloni, che in queste ore fa del suo meglio per ribadire la sua fedeltà atlantista, il suo sostegno all’Ucraina, e per far dimenticare la sua ‘esibizione’ muscolare alla convention repubblicana di Miami. L’intervento del Presidente Biden a una riunione del partito Democratico americano, dove per tanti sgangheratamente si è messo in guardia dai pericoli di populismo e para-fascismo provenienti dall’Italia, sono pur sempre un ‘segnale’ e un monito. Perfettamente colto e recepito da Meloni.
l secondo fronte, anche questo estero, è a Bruxelles. Non c’è dubbio che i potentati dell’Unione Europea e i relative centri di potere, attendono Meloni alla prova del budino. E’ noto che per sapere se il budino è buono o no, l’unico modo è assaggiarlo. Così per Meloni: attendono le mosse che farà, e le valuteranno in modo pragmatico: non regaleranno nulla, cercheranno di capire dove può esserci un ‘buono‘ (dal loro punto di vista, ovviamente). Per questo, al di là delle parole e delle proclamate intenzioni, una Meloni più che consapevole, evita conflitti frontali con quanto fatto finora dal governo di Mario Draghi, e, anzi, cerca una possibile sponda. Come quasi si trattasse di una corsa staffetta.
Questi due sono i veri problemi che Meloni è chiamata a rispondere. Poi certo: l’economia, le tasse, le mille questioni legate all’energia, la guerra in Ucraina, le velleità e le bizze degli alleati…
In queste ore Meloni e i suoi più fidati consiglieri cercano di comporre un puzzle complicato. Nei ministeri chiave non c’è solo da assicurare una ‘distribuzione‘ che soddisfi gli appetiti di tanti affamati. C’è da fare i conti con un Sergio Mattarella più che mai vigile. Il Presidente della Repubblica vaglierà con molta attenzione la lista dei ministri che Meloni gli sottoporrà prima del giuramento, proprio per rassicurare Washington e Bruxelles (oltre che le Borse di mezzo mondo, e il circuito delle Banche internazionali).
Questo spiega la sostanziale linea sobria e cauta assunta da Meloni. Da accorta politica il segnale che intende inviare è chiarire con i fatti che non ci sarà il tanto temuto ed evocato tsunami.
In economia ci sarà una linea di continuità con il governo Draghi. I mercati possono tirare sospiri di sollievo. Mercati che al momento hanno risposto con una cauta apertura di credito: spread salito di ‘soli’ 20 punti base. L’orientamento sembra essere quello di concedere una sorta di luna di miele. In attesa della metà 2023: allora il rallentamento dell’economia si farà sentire pesantemente. Una prudenza delle cancellerie e dei mercati che ha una sua ragion d’essere: lo si deve alla Nota di Aggiornamento al DEF approvata dal Governo Draghi: ci sono 10 miliardi (il cosiddetto ‘tesoretto’) per un intervento del nuovo governo di fine anno, presumibilmente per contrastare il caro energia.
E tuttavia… Il quadro di finanza pubblica che si prospetta è positivo principalmente per l’elevata crescita economica nel primo semestre (post-COVID, prima che la guerra in Ucraina portasse ad un rallentamento dell’economia) e per l’inflazione che ha comportato maggiori entrate. Elementi che però saranno di breve durata: la crescita economica torna allo 0,6% nel 2023 a fronte di un 2,4% previsto ad aprile. Le previsioni sul PIL segnalano un 2023 in stagnazione. Nel 2023 l’economia tornerà a crescere a ritmi modesti come nel periodo pre-Covid. Se la crisi energetica si inasprirà, si arriverà a una crescita pari a zero. Le risorse per sostenere l’economia saranno molto più limitate rispetto a quanto messo in campo questo anno. A questo punto cosa farà Meloni? Rispetterà gli obiettivi di deficit stability? Si avranno a disposizione appena 10 miliardi che, sommati ai 10 portati in eredità dal governo Draghi, portano ad uno spazio di manovra pari ad appena ad un terzo di quanto stanziato da questo governo. Oppure porterà il deficit nel 2023 sui livelli del 2022 (lo ‘scostamento’)? Si arriverà così a circa 35 miliardi. Comunque la coperta è corta e sarà una complicata gatta da pelare per Meloni e la sua maggioranza riuscire a dar fronte alle sfide del 2023. Ci sono una decina di miliardi in cassa pronti all’uso; ma in questo quadro fosco c’è poco di che essere ottimisti.
Sull’altro fronte, quello del Partito Democratico, il segretario Enrico Letta si dimette, si convoca un congresso, ci si dilania e sbrana come di prammatica. Un film già visto. Cambiare nome, cercare un programma, mutare le leadership, stringere alleanze con attori politici fino a ieri demonizzati… chi si alza prima la mattina parla. Di certo i cacicchi del partito, al netto delle dichiarazioni, si ingegnano come conservare le loro quote di potere. Il dibattito e il confronto, al momento sono molto poco appassionanti, e l’attenzione qui prestata, è solo per dovere di cronaca.
Idee e proposte innovative, non emergono. Solo stanche lamentazioni. Anche Filippo Andreatta, studioso di vaglia e brillante, intervistato dal ‘Corriere della Sera‘, cade nel luogo comune che vuole il fallimento del post PCI in tutte le sue tormentate declinazioni, perchè diventato un ibrido tra la borghesia che vive nella ZTL e il PRM (Partito Radicale di Massa).
E’ un comodo alibi che non aiuta a comprendere le ragioni del fallimento del Partito Democratico e il trionfo della coalizione di destra-centro; tantomeno per affrontare e dirimere i tanti nodi venuti al pettine (manca il pettine, per parafrasare Leonardo Sciascia).
L’espressione ha una certa età: la conia Augusto Del Noce, tra i più autorevoli filosofi politici cattolico-conservatori, nel 1978, più di quarant’anni fa. Di acqua sotto i ponti ne è passata. Anche la ‘riflessione’ dovrebbe evolversi un pò e fare qualche passo ulteriore.
Torinese, antitesi del laico e progressista Norberto Bobbio, Del Noce a suo tempo è avversato dalle sinistre, ma anche dal cattolicesimo conciliare. Da qui occorre partire per comprendere il suo pensiero: sostiene che la sinistra progressivamente si svuota dei suoi valori ‘tradizionali‘; che nel processo di scristianizzazione popolare, più di Marx, giocano un ruolo fondamentale Sigismund Freud e William Reich; di conseguenza il PCI si trasforma da partito popolare in radicale di massa; la sinistra in generale perde la sua vocazione di religione atea e salvifica, dimentica il progetto del «regno di Dio senza Dio», che sostituisce con le «conquiste» del radicalismo: scientismo tecnologico, diritti soggettivi, individualismo amorale.
Se la sinistra e parte del mondo cattolico perdono la vocazione salvifica non ci si può che rallegrare. Ma è davvero cosi’? Inoltre, un conto è teorizzare una presunta perdita di valori, altro sostenere che il partito ‘popolare‘ cessa di essere tale perchè diviene ‘radicale di massa‘. Quel ‘massa‘ non è forse ‘popolo‘? E quando mai, perchè alla fine da Partito Radicale di Massa si finisce con individuare specificatamente i radicali, i libertari, Marco Pannella, costoro sono stati promotori di processi di scristiannizzazione? Lo si ascolti con attenzione Pannella: è giusto il contrario. Il suo è un continuo rispetto e richiamo, anche letterale, a quei valori, spesso un appello a chi è chiamato a incarnarli; un continuo sostenere che ci sono valori di massa ignorati e di cui non si comprende portata e significato; brunianamente sostiene che nell’individuo c’è il ‘tutto‘.
Per tornare a Del Noce: ne ‘Il suicidio della rivoluzione‘ pubblicato nel 1978 da Rusconi, sostiene: «L’esito dell’eurocomunismo è quello di trasformarlo in una componente della società borghese. Persa per strada l’utopia rivoluzionaria, si è rovesciato nel suo contrario: anziché affossare la borghesia ne è divenuta una delle sue più salde componenti. Il partito rivoluzionario fornisce l’occasione allo spirito borghese di realizzarsi allo stato puro. Il comunismo di Gramsci è divenuto l’ideologia del consenso comunista all’ordine tecnocratico neocapitalistico».
Come si vede, e senza per questo dover condividere la analisi/previsione, la questione posta da Del Noce è più ampia e complessa. Non va certamente banalizzata per giustificare fallimenti tattici e strategici del volenteroso Enrico Letta, che sono errori, miopie, lacune di un intero gruppo dirigente intriso di annosa autoreferenzialità arrogante e presuntuosa.
Accade che a Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia, Isabella Rauti prevalga su Emanuele Fiano. Ma da tempo Sesto San Giovanni è perduta. I disastri in Regioni sicure come Emilia-Romagne, Toscana, Umbria, Marche, da tempo erano annunciati, si avvertivano inquietanti scricchiolii e segni di cedimento; chi doveva ascoltare doveva e poteva capire. In questi anni ci si è chiesti, per esempio, chi erano gli iscritti alla CGIL dei tempi di Luciano Lama e questi di oggi di Maurizio Landini? Un raffronto è illuminante. Ma questa ‘evoluzione’ non la si deve certo perchè ai sacri testi del marxismo si sarebbe sostituita la psicanalisi o lo strutturalismo. I pragmatici emiliani, se voltano le spalle al ‘partito’ non è perchè i loro dirigenti in sezione invece di leggere ‘Che fare?‘ di Lenin si imbevono della rivoluzione sessuale di Reich. E più probabile che le ragioni del dissenso e della delusione affondino altrove (per inciso, Reich non è si trovi più facilmente in libreria).
E’ l’egemonia sprezzante e soffocante, la gestione del potere, il suo abuso, l’aver inseguito demagoghi e populisti sul loro terreno, che ha provocato e provoca un senso di ripulsa e rivolta.
Nei primi anni ’70, il PCI era timoroso che il suo ‘popolo’ votasse contro la legge Fortuna-Baslini sul divorzio, e non capiva che invece sarebbero stati gli elettori della DC e del MSI a voltare le spalle ai loro partiti; già allora avevano perso, nonostante le sezioni presenti accanto a ogni campanile, il contatto con il loro ‘popolo’, non lo capivano, non lo ascoltavano. A Letta e a tutti (TUTTI!) i suoi predecessori, andrebbe raccontato chi era Argentina Marchei. Sicuramente non lo sanno.
È stolto pensare che il PD sia diventato il partito di élite, perdendo fasce di elettorato popolare e settori sociali marginali che più hanno patito e patiscono le difficoltà della crisi economica, perchè i presunti valori tradizionali sarebbero stati sostituiti da diritti soggettivi quali testamento biologico, eutanasia, riforma carceraria, Lgbt, unioni e adozioni civili, jus soli. Questi diritti presunti soggettivi (sono invece di massa, tutto quello che riguarda la vita, la morte, il come vivere, non è questione di elite, ma di tutti nessuno escluso), si è ben compreso che li si trattava strumentalmente, artificiosamente, senza convinzione. E’ per questo che è venuta meno fiducia e consenso.
Presto per dare un giudizio sul dibattito all’interno del PD alle prime battute. Non è infondato il timore che tutto finisca col ridursi in sterili evocazioni, che non si sappia elaborare un programma credibile, ci siano fortissime resistenze a un rinnovamento dei quadri, si assista a un avvilente carosello di reciproche denigrazioni e lotte di faida interna.
Magari il PD riuscisse a trasformarsi il PRM (Partito Radicale di Massa) e liberarsi completamente delle passate incrostazioni e dei vecchi ‘vizi’, e acquisti contemporaneamente nuove ‘virtù’! Il problema è che non ce l’ha fatta finora, chissà se ce la farà in questa sua tormentata fase. Per ora nulla induce all’ottimismo.