Covid-19 in carcere, un’emergenza ignorata, ma non dall’agenda gravosa del futuro Ministro della Giustizia
Quale che sia l’opinione che si può avere di Luca Palamara, un dato di fatto è incontrovertibile: il vero e proprio successo editoriale del libro-intervista pubblicato con la collaborazione del direttore de ‘Il Giornale’, Alessandro Sallusti: ’Il Sistema’ (il titolo del libro), dice Filippo Gugliemone, direttore generale operativo delle case editrici del gruppo Rizzoli-Mondadori, «dal giorno dell’uscita è stabilmente nei primi posti nelle classifiche dei libri più venduti, in una settimana ci sono state ben sei ristampe, per un totale di 165.000 copie».
Palamara racconta in che cosa consiste il ‘sistema’ che a suo dire condiziona la magistratura e la politica: «Tutti quelli – colleghi magistrati, importanti leader politici e uomini delle istituzioni molti dei quali tuttora al loro posto – che hanno partecipato con me a tessere questa tela erano pienamente consapevoli di ciò che stava accadendo», dice l’ex magistrato. «Io non voglio portarmi segreti nella tomba, lo devo ai tanti magistrati che con queste storie nulla c’entrano».
E’ evidente che Palamara parla pro domo sua. Non sarà come Cicerone che si oppone a Publio Clodio Pulcro; quello che dice andrà preso con le proverbiali molle. Si ammetta pure che dal libro emerge un’immagine della giustizia è vero solo parte. Di sicuro ne esce fortemente screditata. E’ comunque la testimonianza di un magistrato che ha occupato per anni posizioni apicali nell’ambito dell’Associazione Nazionale dei Magistrati, poi componente del Consiglio Superiore della Magistratura, e leader di una delle ‘correnti’ più forti della magistratura. Uno che le cose le conosce da ‘dentro’, ne ha diretta conoscenza. Se ha mal-agito come tanti rimproverano e accusano, certo non lo ha fatto in solitaria. Ha avuto complici, personaggi che hanno beneficiato del suo ‘fare’, che gli hanno chiesto di intervenire e di prodigarsi in loro favore.
Palamara racconta nel dettaglio tresche e lottizzazioni per le carriere, per condizionare in un senso o nell’altro processi imbarazzanti; fa nomi e cognomi. Ebbene ci si attenderebbe un diluvio di smentite. Nulla, invece. Fatti di inaudita gravità, accolti con gelida indifferenza.
Ne avrà di lavoro da fare, il nuovo Ministro della Giustizia, anche solo a voler porre rimedi ai danni lasciati dal suo predecessore. Per dire: una delle prime cose che dovrebbe fare è cancellare l’improvvida riforma della prescrizione, il cui unico concreto scopo e risultato è lasciare l’imputato sotto il gioco della giustizia per tutta una vita, ‘sub judice sine die’. C’è da sfoltire i Codici e depenalizzare senza aver timore di incorrere nelle ire e nelle incomprensioni dei settori ‘forcaioli’ della pubblica opinione. Nei cahiers de doléances che il Ministro troverà sulla sua scrivania, la necessità di potenziare gli uffici; il personale carente, gli ausiliari, le strutture obsolete: aule da riprogettare. Limitare la possibilità di impugnazione, porre limiti a ricorsi dilatori in Corti d’Appello e in Corte di Cassazione. Poi le riforme solite, da tanti invocate, mai attuate: la separazione delle carriere tra Pubblico Ministero e Giudice.
Emblematica, per quel che riguarda il cattivo funzionamento dell’’azienda giustizia’, la situazione in Puglia: il personale amministrativo è carente di almeno 500 unità rispetto alla pianta organica. A Bari, Foggia, Trani, i palazzi di Giustizia sono a dir poco fatiscenti. Le cittadelle giudiziarie esistono solo sulla carta. Si dispone di celebrare i processi in videoconferenza; peccato solo che i tribunali non siano dotati di wi-fi; i magistrati collegano il PC al telefonino tramite hot spot, per tenere le udienze da remoto sintetizza il distacco fra teoria e realtà. Tutto fino a pochi mesi fa si svolgeva tramite una rete Intranet, che è divenuta parzialmente inutile quando la pandemia ha reso necessario interfacciarsi con persone all’esterno, siano essi avvocati, imputati o detenuti. Le aule in cui esiste il collegamento a Internet sono così poche che vengono letteralmente contese, e sono prive di allacci in numero da consentire il contemporaneo collegamento di tutti i componenti di un collegio. Per questo motivo il numero dei procedimenti da trattare online quotidianamente è notevolmente ridotto rispetto a quelli che si facevano in presenza.
Ultima, non ultima, la questione Covid-19. Ha radicalmente stravolto la vita in carcere. Da un giorno all’altro, famigliari, docenti delle scuole, responsabili esterni di attività lavorative interne, volontari sono stati allontanati dagli istituti di pena. All’esplodere della pandemia, alla fine di febbraio dell’anno passato, le carceri ospitavano oltre 61.000 persone (50.000 i posti ufficiali). Situazione ulteriormente aggravata dal fatto che altri 3.000 posti circa risultano inutilizzati a causa di manutenzioni.
Durante la prima ondata pandemica, i detenuti risultati positivi al virus erano arrivati a un picco massimo di circa 160 persone nei primi giorni di maggio, essendosi mantenuti sempre sopra le 100 unità a partire dalla metà di aprile. Quattro i detenuti morti di coronavirus durante quei mesi. Ben diverso lo scenario della seconda ondata, quando i detenuti positivi sono arrivati a superare le mille unità e focolai si sono sviluppati in vari istituti in giro per il Paese, da Terni a Sulmona, da Tolmezzo a Busto Arsizio ad altri ancora. I detenuti morti per Covid-19 nel corso dell’autunno sono stati 7, cui si va aggiungere la prima recentissima morte, a Rieti, del 2021.
A questi dati drammatici se ne aggiungono altri, i suicidi: 56, un numero enorme ai quali il ‘sistema’ carcerario sembra oramai assuefatto. Questa la situazione, questi i fatti che attendono il prossimo Ministro della Giustizia.
di Valter Vecellio