Luciano Floridi sul Corriere della Sera di mercoledì 11 luglio analizza quello che egli definisce “il male di democrazia”di cui soffrirebbe l’Italia. L’autore, constata che l’allargamento del margine di democrazia a tutti i livelli, dal secondo dopoguerra in poi, è stato usato come un antibiotico per curare ogni problema di ordine politico, finendo col determinare una sorta di resistenza batterica. Particolarmente efficace risulta l’affermazione che per la soluzione del complesso problema, quindi “la terapia non è più democrazia, che aumenta il populismo, o meno democrazia, che aumenta l’illiberalismo, ma una democrazia migliore, che sia antipopulista e liberale, per contrastare la dittatura della maggioranza e rappresentare, difendere e riconciliare gl’interessi legittimi di tutti, anche delle minoranze”.
Ho trovato queste riflessioni molto acute, anche se dissacranti rispetto ad una mitologia, alla quale quasi tutti per decenni hanno dato credito. La sinistra, che aveva il predominio sulle piazze chiedeva più democrazia per ottenere maggior potere, la parte conservatrice del Paese la concedeva per evitare di inasprire i conflitti sociali, temendo che altrimenti si sarebbero rafforzati i movimenti extraparlamentari di destra e di sinistra, che negli anni settanta rappresentarono un pericolo reale per la stabilità e la sopravvivenza delle istituzioni. Come conseguenza un lungo confronto tra sinistra comunista e conservatorismo cattolico finì col produrre un clima compromissorio, che sembrava ai più un destino inevitabile. Il grande errore politico e culturale fu quello di accettare fatalisticamente un processo che in effetti non fu che una sorta di rinuncia ad altri valori fondanti, come la libertà, la partecipazione di una cittadinanza attiva, o la separazione dei poteri, rispetto alla sola democrazia, che, priva di questi altri elementi, finiva con l’essere freddo calcolo numerico senz’anima.
L’incontro tra due culture fideiste e chiuse come il comunismo ed il cattolicesimo aveva prodotto un progressivo allontanamento da altri ideali fondanti dello Stato moderno, come il ruolo dei singoli, la promozione del genio e dell’intraprendenza, l’esaltazione delle diversità, l’alta formazione, la separazione dei poteri, tutti fattori intesi come argine alla mera conta dei numeri. Il problema, a lungo ignorato, emerge oggi di fronte al dilagare del sovranismo ed alla disperata ricerca di un capo nel quale riconoscersi ed a cui affidare il proprio destino.
È indiscutibilmente vero che si tratta di un fenomeno planetario, ma nel nostro Paese assume una diversa connotazione. Il potere assoluto ed a vita di Xi Jinping trova una ragion d’essere nella tradizione autoritaria del comunismo cinese e nella contropartita di una crescita economica straordinaria per un grande Paese che fino a pochi anni fa era alla fame. Quello di Putin risiede nella tradizione imperiale orientale, che non ha metabolizzato i valori della rivoluzione d’ottobre in termini di aspirazione ad una maggiore libertà, ma si è facilmente assuefatto prima allo zarismo leninista e stalinista, oggi al neo imperialismo della nuova Russia. Altrettanto la tirannia di Erdogan trova ispirazione nella legge coranica e nell’integralismo islamico.
Anche nel mondo occidentale registriamo pulsioni autoritarie che emergono nello spregiudicato esercizio del potere da parte di Trump o nel riflesso bonapartista che affligge da sempre la Francia, prima con De Gaulle, dopo, sia pure col guanto di velluto, con Mitterand, infine con le spregiudicate e ridicole esibizioni di Sarcozy ed oggi quelle molto simili di Macron. In Italia tutto avviene come in versione minore: un giorno il popolo va in delirio per le volgari buffonate di Grillo, domani di un altro e poi di un altro ancora, alla ricerca disperata di un nuovo duce. Le ultime quattro leggi elettorali, una fortunatamente neppure sperimentata, due dichiarate incostituzionali, tendono a trasformare la democrazia in plebiscito, dando l’impressione al popolo di scegliere, mentre non gli rimane che accettare il cibo precotto offerto da partiti personali e non democratici. Il voto ormai è nient’altro che un rituale cui non viene attribuito quasi alcun valore. Infatti la maggioranza di governo può allegramente realizzarsi tra forze che si sono presentate alle elezioni come alternative ed inconciliabili e che non sono in grado di mantenere nessuna delle mirabolanti promesse elettorali, tranne la eliminazione dei vitalizi, provvedimento palesemente incostituzionale e che rischia di aprire un precedente gravissimo che potrebbe portare alla riduzione di altre pensioni che, giuste o sbagliate, vengono da tempo percepite ed in base alle quali molte persone, ormai anziane, hanno costruito il loro programma di vita.
Una delle primissime nozioni che appresi sin da giovane fu che politica è cultura e che senza un retroterra valoriale ed identitario, il declino verso la tirannide è inesorabile. Quanto avvenne dopo la disastrosa prima guerra mondiale lo ha dimostrato. Dopo la seconda un esito analogo, forse peggiore, fu evitato dagli americani e dalla NATO. Oggi la prospettiva di solitudine in un’Europa che sembra dissolversi, potrebbe produrre un inarrestabile bradisismo negativo, che finirebbe col sommergere il Paese. Spetterebbe ai liberali di far sentire la necessità di maggiori dosi di liberalismo, ma la nostra voce è troppo flebile e non possiamo che soggiacere ad un pessimismo, che non è nelle nostre corde, ma che sembra inevitabile.
di Stefano de Luca – Rivoluzione Liberale