Una grande confusione regna sovrana nei numerosi tentativi politologici di definire quanto avviene nel mondo odierno con le categorie culturali di ieri. Termini come democrazia, liberalismo, economia di mercato, autarchia, liberismo, dirigismo, sovranismo, socialdemocrazia, stato sociale, destra e sinistra vengono usati con riferimento a fenomeni che nulla, o quasi, hanno a che fare con quelle parole ed i loro significati originari. Questa babele di linguaggi ha determinato un labirinto comunicativo, che disorienta.
Tutti si definiscono liberali e quasi nessuno sa bene di cosa stia parlando, forzando il significato storico politico del termine, che è diventato un passe par tout adattabile a qualunque posizione, anche le più illiberali. La stessa democrazia ha finito col perdere la sua ragion d’essere originaria, dal momento che, attraverso astruse leggi elettorali, alcuni partiti continuano a tentare di violentare l’opinione dei cittadini per condurli verso obiettivi prefissati. Il rito della sovranità popolare va trasformando il suffragio universale in una forma di plebiscito, che, il più delle volte, si rivolta contro chi ne aveva preordinato l’esito a proprio favore.
Le parole destra e sinistra, che un tempo avevano il chiaro significato di tracciare una linea di demarcazione tra conservazione e riformismo, oggi non coincidono più con tale definizione elementare. Nel nuovo Parlamento partiti conservatori come il PD siedono a sinistra, mentre una forza di cambiamento come la Lega siede a destra. Nessuno sa bene cosa sia il M5S nella nuova versione a vocazione governativa, ma la sua collocazione sui banchi di centro sinistra appare corretta, dal momento che la componente che fa capo a Di Maio non differisce molto, in termini di sensibilità politica e di interessi sociali rappresentati, dalla componente moderata della vecchia Democrazia Cristiana. Quella cosiddetta ortodossa o movimentista richiama la tradizione cattolico-democratica della sinistra DC.
Indiscutibilmente se si dovesse dare ascolto alla voglia di cambiamento espressa dagli elettori, tale sentimento è sicuramente rappresentato da Lega e M5S, che tuttavia, sprovvisti della grande capacità mediatrice del vecchio partito cattolico, sono inconciliabili in quanto non in condizione di coniugare gli opposti sentimenti popolari, che li hanno sostenuti. L’uno rappresenta il disagio del Nord, attento a condizioni migliori per la produttività, la difesa dall’immigrazione selvaggia, la riduzione della burocrazia e del carico fiscale. L’altro interpreta la richiesta di assistenza che viene da un Mezzogiorno disperato, perché troppo impoverito e privo di speranze per il futuro.
Questi due partiti quindi difficilmente possono essere collocati all’interno delle categorie tradizionali della cultura politica. Hanno in comune soltanto l’esaltazione della forza dei rispettivi leader ed il tentativo di instaurare un dialogo diretto tra essi ed il rispettivo elettorato di riferimento.
Non mi paiono comunque condivisibili gli sforzi di coloro che tendono a distinguere quanto è avvento in Gran Bretagna con la Brexit e negli USA con Trump, rispetto a quanto avviene in Europa. Non riusciamo a rinvenire una maggiore dose di liberalismo nelle espressioni che governano oggi le due democrazie anglosassoni, rispetto all’Europa Continentale. Il fenomeno francese di En Marche, partito personale di Macron, fondato sulla protesta della pancia del popolo francese, non differisce da quel modello che si è imposto negli USA ed in Gran Bretagna, o anche in Italia, si pure in forma più embrionale e scomposta. Il medesimo clima d’altronde si respirava in Olanda, prima delle elezioni, anche se il fenomeno è stato contenuto, oppure in Austria, dove si è registrato un successo più significativo della protesta. Non dissimile era il sentimento popolare nella stessa Germania, tanto che i margini parlamentari sono risultati talmente ristretti che quel grande Paese è rimasto senza Governo per sei mesi. Se tutto questo avveniva nelle democrazie a noi più vicine, non è il caso di soffermarsi sull’Europa dell’Est, dove il populismo sembra dilagare.
Probabilmente, come abbiamo scritto più volte, la democrazia liberale, come è stata pensata e come l’abbiamo a lungo conosciuta, ha fatto il suo tempo. Nell’era del web prevale la democrazia della influenza diretta dei capi partito, che interloquiscono con il loro popolo attraverso social twit e selfie, senza intermediazioni culturali mediatiche o l’utilizzo di cinghie di trasmissione, come le strutture rappresentative intermedie.
La società moderna deve metabolizzare tutto questo e ritrovare forme comunicative e di partecipazione diverse, se ne esistono. Altrimenti il modello dominante sarà inevitabilmente quello di Putin o, peggio, quello di Xi Jimping.
La cultura liberale è forse morta? No, almeno noi riteniamo che non lo sia, perché il patrimonio di valori, di regole e di sentimenti, che essa ha rappresentato per secoli, rimane sempre attuale. Gli strumenti per far valere tutto ciò devono cambiare. Nessuno sa come, almeno noi non siamo in grado di indicare una via sicura, se non quella di coltivare quel prezioso bagaglio e non permettere che venga travolto, come è stato per il socialismo, che, attraverso l’esperienza sovietica, ha decretato la sua fine.
di Stefano de Luca – Rivoluzione Liberale