Lungo il confine turco-siriano si continua a combattere mentre Recep Tayyip Erdogan appare sempre più deciso a non mollare diretto a guadagnare altre posizioni per invadere il Kurdistan siriano. E in questa situazione di guerra, sangue e persecuzioni di massa l’Unione europea sta a guardare dimostrando ancora una volta l’incapacità assoluta di incidere su questioni di vitale importanza internazionale. Le sbandierate minacce alla Turchia di sanzioni economiche o possibili embarghi sull’esportazione di armi – in realtà quanto mai improbabili visto che tale commercio rende parecchi denari ai paesi produttori di materiale bellico – non sortiscono il ben che minimo effetto sul premier turco. Anzi, i bombardamenti sono sempre più cruenti tanto da coinvolgere civili, giornalisti e soccorritori. Da fonti ben informate sono già oltre 130mila gli sfollati e centinaia sarebbero i morti.
Nel frattempo continuano le intimidazioni di Erdogan all’Ue. Il presidente va giù duro affermando che se l’Unione insiste a ostacolare “la nostra operazione contro i curdi definendola una occupazione apriremo le porte a 3,6 milioni di rifugiati e li manderemo da voi”.
E mentre sull’azione di forza turca nel nord-est della Siria piovono condanne e allarmi da tutto il mondo Erdogan non arretra di un solo passo, non si fa intimorire – del resto per ora sono chiacchiere e lui lo sa bene – e torna a sfoderare l’arma del ricatto all’Europa.
Non solo. Il leader di Ankara rilancia l’accusa a Bruxelles di non aver rispettato le promesse sui 6 miliardi di euro di aiuti per i profughi e rivendica ora nuovi finanziamenti internazionali per la sua zona cuscinetto in Siria, dove vuole trasferire almeno 2 milioni di persone. Parole che hanno scatenato inevitabilmente una bufera diplomatica.
Inutili le puntuali dichiarazioni lagnose del nostro Presidente del Consiglio “Giuseppi” Conte e del fenomeno che ci ritroviamo alla Farnesina Giggino Di Maio che hanno definito “inaccettabili” le minacce di Erdogan sui profughi. Oltre al banale balbettio di circostanza non vanno: mentre l’Ue è addirittura divisa sulla faccenda embargo delle armi, dall’Italia, tra i maggiori produttori, non è ancora arrivato alcun gesto concreto. Questo la dice lunga sull’ambiguità profonda che ha segnato il rapporto fra Bruxelles e Ankara in questi ultimi anni.
La verità è che all’Italia e al resto dell’Ue spaventa eccome la sfida di Erdogan – quella di aprire le porte a milioni di migranti pronti a invadere il vecchio continente – e appunto per questo i membri di una Unione sempre più incapace e inconcludente non sono certo nelle condizioni di sedersi a un tavolo negoziale. In sostanza il ruolo dell’Unione come autorevole attore geopolitico è del tutto marginale se non insignificante. Dall’altra parte ci sono gli Stati Uniti ma ultimamente il loro ruolo nella zona non appare del tutto chiaro, potremmo definirlo piuttosto altalenante tanto da aprire non pochi interrogativi su eventuali interventi nel prossimo futuro.
In questo quadro complesso si delinea quindi una situazione caotica in cui in Medio Oriente le potenze dell’area hanno di fatto le mani libere, ossia piena libertà di perseguire i propri interessi anche decidendo, per il loro raggiungimento, di intraprendere soluzioni limite come quelle militari come in realtà sta già accadendo.
Insomma, la comunità internazionale non trova per ora la forza di contrastare la Turchia, non dimentichiamo che si tratta del secondo esercito Nato, che ha deciso un’azione unilaterale per interessi politici e territoriali, con la forza bellica.
Intanto cresce anche l’allarme Isis. Con i combattenti curdi richiamati al fronte dalla mobilitazione generale, la custodia delle carceri dove sono detenuti migliaia di jihadisti si è di conseguenza allentata. E la scorsa notte, hanno denunciato i curdi, un bombardamento degli F-16 di Erdogan ha colpito il carcere di Chirkin, nella zona di Qamishli, vicino al confine iracheno, dietro le cui sbarre ci sono miliziani di oltre 60 Paesi. Per i curdi sarebbe stato un chiaro tentativo di farli scappare. All’orizzonte, avvertono, c’è una catastrofe che il mondo potrebbe non essere in grado di gestire in futuro. Sottovalutare questi segnali rischia di essere un errore colossale. I timori che i reduci del sedicente Stato islamico rialzino la testa sono forti anche tra le cancellerie occidentali, come dimostra la decisione Usa di trasferire in una prigione irachena due detenuti britannici, membri di una cellula di quattro soprannominata ‘Beatles’ che torturò e uccise ostaggi occidentali, tra cui il reporter James Foley.
Dal canto suo Erdogan tranquillizza, per il momento, negando tali rischi. Ma possiamo credergli? “Voglio dare questa rassicurazione: Daesh non sarà presente nella regione dopo l’operazione. Oggi ci chiedono cosa ne faremo dei membri di Daesh. Faremo quello che abbiamo fatto con i membri di Daesh già finiti sotto il nostro controllo: li terremo in galera o li manderemo nei Paesi d’origine, se questi li accetteranno”, afferma Erdogan.
Intanto, e questo era del resto prevedibile, il pugno duro colpisce anche all’interno della Turchia dove è subito iniziata la repressione del dissenso sull’operazione. E sappiamo bene che anche in fatto di repressione Erdogan non scherza. Un’inchiesta per propaganda terroristica è stata aperta nei confronti di diversi deputati del filo-curdo Hdp, compresi i due leader mentre 21 persone sono state arrestate per le critiche sui social e in manette è finito anche il caporedattore web del giornale di sinistra Birgun.
Così dopo aver incassato miliardi dall’Unione Europea per un’adesione che difficilmente vedremo la Turchia può infischiarsene di richiami e inutili moralismi da parte di chi, d’altronde, non riesce neanche a smettere di vendergli armi e ha col suo Paese, e la sua manodopera a basso costo, importanti rapporti commerciali e industriali. Qualcuno, come l’Italia, nelle ultime ore ha fatto la voce grossa cercando di far credere di essere “il più bravo della classe” ma Erdogan non ha certo paura di una pistola scarica.