È divenuto impossibile chiedere ad un interlocutore che cosa si aspetti dalla politica, quale futuro dovrebbe riservargli. Puntualmente la risposta è: “Non vedi come ci hanno ridotti”? Come se stessimo impotenti a guardare le nostre case distrutte dal terremoto, un Paese alla deriva, il nostro lavoro finito, il futuro dei nostri figli condannato per sempre. Il pessimismo diffuso è tale da offrire l’impressione che tutti vivano come in un presente talmente dilatato, da non aver più alcun ricordo del passato, almeno quello che essi stessi hanno vissuto, e da non riuscire più a sognare un futuro. Sembra che un’epidemia perniciosa, intrisa di pensieri negativi, abbia invaso le menti dei nostri contemporanei.
Indubbiamente mi riferisco principalmente ai concittadini italiani, ma tutta l’Europa e l’intero Occidente ne sono contagiati. Come se troppi decenni di pace, di crescita, di successi in ogni campo, anziché produrre motivi di giusta soddisfazione, imponessero di vivere come ripiegati su se stessi, sulle proprie rovine. In tutti i colloqui, nelle esternazioni sui social, nelle riunioni in cui si parla della condizione della società odierna, emerge una nota negativa, accompagnata da una perentoria indicazione dei colpevoli in “quelli di prima”, ai quali si contrappone un nuovo dal profilo evanescente.
Rassegnazione e rancore emergono in ogni frase, in ogni parola, insieme al desiderio di cambiare tutto e principalmente tutti, senza rendersi conto che in venticinque anni tale cambiamento, almeno per quanto concerne la rappresentanza politica, è avvenuto più volte, quasi ad ogni appuntamento elettorale e che in fondo è stato quasi sempre soltanto l’occasione per cacciare quelli che c’erano, di qualunque colore, per premiare altri. Siamo così arrivati ai dilettanti allo sbaraglio, agli analfabeti al potere, che, con precisione millimetrica, stanno occupando tutte le posizioni di comando, spesso litigando tra loro per la spartizione, dal momento che non esistono più le regole che vigevano in passato, non solo il manuale Cencelli, ma principalmente dopo che è stata cancellata ogni forma di pudore.
Interrogando chi ci sta intorno, tuttavia, nessuno riconosce di aver commesso l’errore di scelte non meditate, seguendo l’impeto del momento, ma la risposta, come un mantra, è sempre quella: tutte le colpe sono di quelli di prima. È vero, abbiamo un debito pubblico enorme, ma che si è formato in un periodo lunghissimo, di almeno un quarantennio od un cinquantennio e non riconosciamo mai che, grazie a questi ladri e malfattori, il Paese ha raggiunto il grado di progresso e di ricchezza nel quale viviamo, quale settima economia mondiale. Peggio, i nuovi arrivati nel Palazzo, scelti con le consultazioni on line sulla piattaforma Rousseau, privi di cultura, competenza, titoli di studio, esperienze lavorative, conoscenza della complessa macchina dello Stato, pensano di comprare il futuro consenso dei ceti che li hanno sostenuti, ancora una volta, con altro debito pubblico. Ma non erano il nuovo, i risanatori, il popolo che faceva giustizia sommaria contro la ignobile casta? Sussidi a pioggia per tutti, blocco delle opere pubbliche, analisi costi benefici falsate, nessun investimento per la scuola, per l’Università, per la ricerca, per l’ambiente, per il progresso, per creare lavoro produttivo. Un misto di neo comunismo post mortem rispetto a quello vero, unito ad un neofascismo senza la orgogliosa supponenza di quello passato e, ci auguriamo, senza le stesse velleità neo imperialiste, ma con la medesima arroganza ed il medesimo disprezzo per la cultura e l’intelligenza. Le colpe sono tutte di quelli che c’erano, che per fortuna comunque li hanno condotti per mano fin dove sono arrivati. Il problema è che non sappiamo dove questa feroce voglia distruttiva potrà portarci, e facilmente potrebbe essere il baratro.
Cercando di comprendere le ragioni di questo rancore distruttivo, emerge che dipende principalmente dall’improvviso arresto dell’ascensore sociale, avvenuto ormai da un decennio. Dal dopoguerra e per almeno un sessantennio avevamo registrato che la condizioni di benessere diffuso andavano progressivamente migliorando, che i figli stavano meglio dei genitori, che il futuro appariva pieno di speranze e di concrete prospettive. Questo fenomeno, che Popper aveva diagnosticato come la capacità della società aperta di sconfiggere il classismo vetero comunista, ad un certo punto, si è bruscamente arrestato. In troppe famiglie i figli o i nipoti sono rimasti a carico dei genitori o vivono di una parte delle pensioni dei nonni, il lavoro scarseggia, la crescita economica ha avuto un forte rallentamento e talvolta sembra essersi fermata.
Di tutto questo bisognava trovare un colpevole e si è trovato: la casta, che ha pensato ai propri privilegi ed ha abbandonato il popolo. Quest’ultimo non vedendo prospettive di futuro, per punizione, ha fatto ricadere le proprie scelte elettorali in favore dei partiti populisti. Chi più alza la voce ed impreca più ha ragione. Dopo si sono uniti il populismo di destra con quello di sinistra, moltiplicando le pretese velleitarie, l’arrogante supponenza, tipica degli ignoranti, la necessità di distribuire farina, ciascuno al proprio elettorato di riferimento. Il disastro era già scritto e non sarà facile rimediare. Le classi dirigenti preparate e competenti di ieri sono state espulse dal sistema, nessuno che conosca i problemi e che sappia quanto difficile e duro sia rimediare agli errori fatti, è disposto ad assumersi responsabilità, ormai divenute troppo grandi.
Questi nuovi eroi, ministri, deputati, capi e capetti presi dalla strada cadranno come frutti marci appesi all’albero e che nessuno si è curato di raccogliere in tempo, ma chi vorrà e potrà sostituirli? Non soltanto si tratterebbe di rimettere in moto una macchina troppo danneggiata, ma principalmente, senza il consenso, l’entusiasmo, la collaborazione di tutti, il Paese non potrà riprendersi. Non basta questa volta soltanto cacciarli via, bisognerebbe poter costruire un’alternativa e miracolosamente poter contare su un solido ed ampio consenso per affrontare lo sforzo titanico di ricomporre il mosaico del necessario tessuto di fiducia, collaborazione, sacrificio, ottimismo della volontà. L’Italia potrebbe ancora farcela, ma dovrebbe poter contare sul ritrovato ottimismo di quelli, ormai troppi, che si sono rifugiati nella facile accusa che colpa è di quelli di prima e quindi si sentono autorizzati a continuare a demolire, anziché tentare la pur difficile scommessa di ricominciare.