Premessa a scanso di equivoci: qualsiasi persona di buon senso ha a cuore la tutela dell’ambiente. Il punto è chiarire quale sia la strada da percorrere senza rendere proibitivi i costi dell’energia e, quindi, danneggiare le nostre economie
Fino ad oggi, l’Unione europea ha intrapreso due vie perniciose: la tassazione “verde”, la Carbon Tax sulle fonti energetiche che emettono diossido di carbonio, e le intese internazionali, che vincolano tutti tranne i Paesi maggiormente inquinatori – India e Cina su tutti.
Inoltre, l’Ue ha preannunciato lo stop alla commercializzazione delle auto a benzina e diesel in favore dell’elettrico entro il 2035. Non solo si danneggia uno dei pochi settori produttivi in cui l’Europa compete ancora a livello globale, quello dell’automotive, ma si rischia di regalare un gol all’economia cinese, che da anni concentra i suoi sforzi proprio sull’elettrico.
Per far fronte alla crisi energetica, che ha colpito quasi i due terzi delle province del Paese, pochi giorni fa il regime di Pechino ha ordinato alle banche di dare priorità ai finanziamenti alle miniere di carbone. Secondo Goldman Sachs, il 44 per cento dell’attività industriale è rimasta senza energia elettrica e la banca d’affari ha ridotto le sue stime di crescita del Pil cinese per il 2021 di ben mezzo punto, dall’8,2 per cento al 7,7 per cento.
Insomma, la riduzione delle importazioni di carbone dall’Australia e l’aumento dei prezzi del gas naturale stanno mettendo in crisi la Cina, che ora si trova davanti ad un bivio: aggravare ulteriormente la produzione di emissioni inquinanti per risollevare la propria economia – già messa alla prova dal rischio di default del colosso immobiliare Evergrande, sul quale grava un debito di ben 305 miliardi di dollari – o mantenere la promessa fatta all’Occidente di una progressiva riduzione delle emissioni.
La risposta sembra scontata. La Cina, infatti, è il primo Paese al mondo per quantità di emissioni di gas serra; è il maggiore produttore di tonnellate di CO2, con quasi il doppio delle emissioni degli Stati Uniti e, secondo gli esperti di Greenpeace, nel Paese si trovano il 90 per cento delle 200 città con il più alto livello di microinquinanti al mondo, record condiviso con l’India.
Mentre i governi occidentali si inginocchiano ai “bla, bla, bla” di una diciottenne, gli ambientalisti gretini non sembrano voler spendere una parola nei confronti di chi dovrebbe essere sul banco degli accusati per i “cambiamenti climatici”: il Partito comunista cinese.
Cara Greta, invece di sfilare per le vie di Milano cantando “Bella Ciao”, che ne dici di usare lo stesso metro di giudizio, così rigido per noi europei, anche per i regimi comunisti?
Matteo Milanesi – Atlantico