La Cina instaura il terrore a Hong Kong e la sinistra italiana non apre bocca.
Ma toh, che strano: quando si tratta di attaccare “l’inaffidabile” Donald Trump o il “pericoloso” Jair Bolsonaro definito addirittura un “folle dittatore”, fingendo di ignorare il particolare che questi due leader sono stati voluti e votati democraticamente, i sempre agguerriti comunisti di casa nostra sono subito pronti a schierarsi come un plotone di esecuzione fomentando odio e disprezzo. Con lo stesso atteggiamento aggressivo hanno affilato i coltelli anche nei riguardi di Juan Guaidò, velocemente liquidato come volgare golpista che ha cercato di attentare a quell’esempio “meraviglioso di prosperità” raggiunto dal Venezuela – un paese da anni in crisi e ridotto alla fame – guidato da quel “grande uomo paladino di diritti umani e democrazia” che risponde al nome di Nicolas Maduro… il presidente dittatore che pare abbia foraggiato con un milione di euro il movimento stellato del comico genovese. Non parliamone poi del presidente ungherese Viktor Orban che per i compagni nostrani è a capo di un regime autoritario che urta con lo spirito liberale che sta alla base dell’Unione europea. Insomma, i sinistrorsi italici non usano mezzi termini e vanno giù duro nei giudizi politici… quando però gli fa comodo, ossia quando coincidono con gli interessi di bottega utili a incassare consenso.
Basta dunque che Pd, Leu e altri pezzi della galassia radical chic salottiera post-comunista intravedano all’orizzonte un leader non progressista e subito si infiammano, l’isteria va oltre ogni limite quando, tra l’altro, correttezza vorrebbe, un tale atteggiamento sarebbe da evitare nel momento in cui si è al governo. In sostanza sul piano diplomatico sarebbe il caso di rispettare un certa misura nell’esprimere giudizi relativi alla politica internazionale spesso affrettati, in particolare quando si è alle redini di un Paese. Stesso livore trasuda nell’altra famiglia di fenomeni miracolati dalla politica, gli inetti e voltagabbana grillozzi che in ogni occasione – e soprattutto attraverso la rete in cui mettono in vetrina tutte le loro menzogne – dimostrano di avere la lingua lunga e biforcuta quanto a mediocrità e cialtroneria puntualmente vomitata via social contro il nemico di turno. Però, ironia della sorte, quella lingua velenosa sembrano essersela ingoiata in un istante se si discute del gigante asiatico e delle atrocità, dei soprusi, delle violenze che si stanno perpetrando da quelle parti.
Curioso dunque che questa rabbia, questo fuoco di collera dei nostri compañeros improvvisamente sparisca quando si tratta di Xi Jinping, il dittatore della Cina: in un attimo la gola dei sinistri si secca e non si avverte neppure l’ombra di una sola voce che condanni la barbarie, le crudeltà messe in atto dal regime con falce e martello. Sembra che nulla stia accadendo. Sulle brutalità che da mesi tormentano l’ex colonia britannica schiacciata dal regime di Pechino i compagni, sempre pronti alle barricate e agli show di piazza, magari con il contorno di sardine e dei devastatori dei centri sociali, girano incredibilmente la testa dall’altra parte facendo finta di niente. Complimenti tovarishes, imbattibili campioni di coerenza e obbiettività. Dirò di più. Ancora peggio è il vergognoso silenzio di “mister pochette” e il resto della compagnia di palazzo Chigi che non proferisce una mezza parola in merito alla repressione violenta che ha messo in ginocchio Hong Kong dopo l’entrata in vigore dal primo luglio della nuova legge sulla sicurezza nazionale cinese, grazie a cui si punta a soffocare ogni voce critica sulla autorità locale procedendo ad arresti di massa e a processi sommari effettuati sotto il regime della Cina continentale.
Dunque tutti i timori espressi nelle scorse settimane da avvocati e attivisti democratici di Hong Kong intorno alla nuova famigerata legge sulla sicurezza imposta dal dragone erano purtroppo giustificati. In termini pratici la norma scritta dal regime cinese, che verrà inserita direttamente nella Costituzione di Hong Kong saltando l’approvazione del Consiglio legislativo della città, prevede l’apertura di un ufficio per la sicurezza nazionale gestito naturalmente da Pechino a Hong Kong, l’istituzione di una forza di polizia in cui non si escludono inserimenti di agenti segreti e, non ultimo, si dice addio all’indipendenza della magistratura. Via allora a processi e carcere in Cina, polizia comunista a Hong Kong e come in tutti i sistemi autoritari non poteva mancare l’indottrinamento patriottico nelle scuole.
Ora il quadro è completo. Altro che quel modello da sempre agognato, ovvero avere “un paese e due sistemi”. Qui si torna al controllo assoluto sull’individuo che ricorda i periodi più bui della storia come quello della Stasi, la temutissima organizzazione di sicurezza e spionaggio della Repubblica Democratica Tedesca e di altre formazioni poliziesche che imperavano ai tempi del blocco sovietico.
La legge del regime cinese, già fortemente criticata a livello internazionale, introdurrà quindi nuovi reati per punire quegli atti e quelle azioni che costituiscono secessione, sovversione, terrorismo e interferenza straniera a Hong Kong. Come in tutti i sistemi autoritari non è ancora chiaro che cosa sarà punito ma di certo la realtà che si prospetta non fa altro che aumentare le preoccupazioni nei residenti della città che si era illusa di rimanere autonoma. Di sicuro c’è che sarà Pechino a esercitare la giurisdizione sui casi di sicurezza nazionale in particolari circostanze. Questo significa, in termini pratici, che chi viola la legge in modo significativo potrebbe essere trasferito direttamente in Cina, processato, detenuto e, perchè no, anche giustiziato. Sappiamo bene che da quelle parti non vanno per il sottile e il regime non impiega molto a emettere una condanna a morte anche per chi semplicemente dissente rispetto all’autorità preposta magari costruendo le prove necessarie in grado di inchiodare un povero disgraziato che il regime vuole eliminare ad ogni costo.
Questo era di fatto l’obiettivo della legge sull’estradizione, che l’anno scorso il governo di Hong Kong ha cercato di introdurre e che ha dovuto ritirare dopo che oltre due milioni di persone, cioè più del 30 per cento della popolazione, sono scesi in piazza per protestare. Un episodio che ha sostanzialmente dato il via alle grandi manifestazioni mai vissute dalla città autonoma. Insofferenze sociali e politiche che durano da oltre un anno, e che la polizia ha cercato di contenere con un livello di violenza prima sconosciuto ai residenti e con migliaia di arresti. Un anno dopo aver costretto pacificamente il proprio governo a ritirare la legge, i cittadini di Hong Kong si trovano dunque a doverne comunque subire gli effetti per imposizione di Pechino.
Così la nuova e tanto controversa legge cinese, vista in molti Paesi occidentali come una minaccia all’alto grado di autonomia dalla Cina di cui godeva fino a poco tempo fa l’ex colonia britannica, ha sconvolto il mondo dell’attivismo – meno però quel mondo sinistrorso italiano – pro-democrazia della regione che godeva di una amministrazione speciale.
“È la fine di Hong Kong. Inizia l’era del terrore”, ha commentato su Twitter Joshua Wong, poche ore prima di annunciare le sue dimissioni dal movimento Demosisto, di cui è stato fino a oggi segretario generale e co-fondatore. Lo stesso movimento pro-democrazia si è ufficialmente sciolto poco dopo.