Sì alla difesa comune ma no al riarmo: e il partito si spacca. L’Ue una costruzione “post-storica” grazie all’ombrello difensivo Usa, ma la vacanza dalla storia è finita
Ecco che Ursula von der Leyen indossò l’elmetto. Le ondivaghe intemperanze di Donald Trump, nel delicato ambito delle relazioni internazionali, hanno spazzato via tutte le certezze sugli equilibri mondiali che sono stati alla base dell’Europa.
Una costruzione post-storica
Con buona pace dei sogni (o illusioni) dei padri fondatori o – ancor più – dei loro esegeti, quella europea non fu una astratta costruzione in vitro che divenne istituzione, un esempio su un nuovo modo di intendere i rapporti internazionali, nel quale si dissolvevano gli interessi nazionali a favore di una nuova visione del mondo. Piuttosto – nel momento in cui l’idea stessa di “potenza”, di “forza” e di “potere”, in Europa, entrava in crisi – divenne una istituzione che agiva in modo semi armonico con le logiche che si erano affermate nel secondo Dopoguerra: l’Europa esistette perché esisteva l’ombrello difensivo americano che la proteggeva dalle indirette minacce del mondo “comunista”.
Per certi versi l’Europa fu una costruzione post-storica. Ecco che l’antagonismo – sussurrato durante la Guerra Fredda e sempre più manifesto dopo il 1989 – tra Europa ed Stati Uniti, per dirla con Robert Kagan, prefiguravano due visioni del mondo totalmente differenti che plasticamente si potrebbero sintetizzare con lo slogan contenuto in un manifesto de l’Ulivo: “Iraq: una guerra sbagliata. L’Europa: la forza della pace”.
Il rifiuto del “Leviatano” americano e delle logiche westfaliane del potere divennero – nei primi anni Duemila – la cifra dell’Europa, ormai abituata a considerare il mondo come qualcosa di ristretto al Vecchio Continente. Dal punto di osservazione di Bruxelles (ironicamente sede sia della Commissione europea, del Consiglio Europeo, sia del quartier generale della Nato), la guerra si declinava con immagini di panorami remoti ed esotici, lontani dai lussuosi centri commerciali dell’Occidente ed il caso della dissoluzione della Jugoslavia pareva essere un semplice incidente di percorso sulla strada della kantiana “pace perpetua”.
In questa “vacanza dalla storia” l’Europa si è dilettata in lunghe discussioni sulla commestibilità delle farine di polvere di grillo, sulla salubrità della cucina mediterranea o sull’abolizione del commercio di auto a combustione interna. In questa illusione post-storica gli Stati membri (esclusi i Paesi dell’Est e – in parte – la Gran Bretagna, che uscì dalla Ue nel 2020, e la Francia, potenze nucleari, anche se di serie B) ridussero drasticamente (ben sotto il 2 per cento) le spese per la difesa.
Il brusco risveglio
Il conflitto ucraino e la nuova amministrazione Trump hanno svegliato l’Europa da questo lungo sonno. Già nel momento dell’invasione russa dell’Ucraina, l’Europa trovò una compattezza quasi impensabile solo pochi mesi prima; adesso, mentre Washington minaccia un disimpegno dal teatro europeo, con l’ipotesi, anche, di un’uscita dalla Nato e dalle Nazioni Unite, a Bruxelles si inizia a discutere sulla ridefinizione del ruolo europeo in un contesto internazionale anarchico, con l’esigenza di aumentare drasticamente le spese della difesa.
Non che non ve ne fosse un reale bisogno. Dopo decenni di fiducia assoluta nell’“ombrello” americano il divario degli investimenti europei (giunti al minimo nel 2014) rispetto a quelli americani, se proporzionati al Pil, è diventato parossistico. Nel solo 2022 la spesa militare aggregata dell’Ue e dei Paesi europei della Nato ha raggiunto i 346 miliardi di dollari, pari al 39 per cento di quella statunitense, mentre il Pil europeo è pari al 67 per cento di quello americano.
Beh, pare evidente che a Washington vi sia donde a lamentarsi dello scarso impegno economico dei partner europei; con l’aggiunta del fatto che sulla sponda orientale dell’Atlantico spesso si sono alzate lamentele sulle scelte americane in politica estera.
Il piano di riarmo
Ciò detto, ecco che la Commissione europea propone un piano di riarmo degli eserciti europei, ed una maggiore integrazione tra essi, articolato in tre punti. Il primo punto del piano “Rearm Europe” consente “l’uso dei finanziamenti pubblici e della difesa a livello nazionale”. Il secondo punto del piano “sarà un nuovo strumento” che “fornirà 150 miliardi di euro di prestiti agli Stati membri per investimenti nella difesa”. Infine, il terzo punto, consiste nell’utilizzare il potere del bilancio dell’Ue.
Queste le parole di von der Leyen: “L’Europa potrebbe mobilitare quasi 800 miliardi di euro di spese per la difesa per un’Europa sicura e resiliente”. Non facciamoci illusioni. È ben difficile che l’Europa possa, in tempi ragionevolmente brevi (20 anni), diventare una potenza militare degna di nota.
Eppure, da qualche parte si deve iniziare. Se vi è un senso ad avere delle forze armate è solo se queste sono in grado di combattere, con ragionevoli possibilità di vittoria, una guerra, magari a bassa intensità strategica, quindi difensiva; altrimenti è meglio smobilitare tutto. Nessuno ha bisogno di forze armate inquadrate come un gigantesco ufficio di collocamento.
Il voto al Parlamento europeo
Beh, come che sia, l’Eurocamera ha approvato con 419 voti favorevoli, 204 contrari e 46 astenuti il piano di difesa e riarmo dell’Unione europea. Su differenti fronti si sono posti i gruppi parlamentari “storici” (quelli dei padri fondatori), sull’altro i populisti di destra e di sinistra, le famose alleanze “rosso-brune”. Tutto abbastanza prevedibile. E la rappresentanza italiana? I partiti della maggioranza si sono spaccati. Voto contrario da parte della Lega. A favore invece il voto di Fratelli d’Italia e Forza Italia.
Tutto prevedibile! “No” da parte del Movimento 5 Stelle e della delegazione di Alleanza verdi sinistra. Sul fronte dell’opposizione anomala, come sempre, è la posizione del Pd. Non stanco di aver forzato – insieme al cipriota partito democratico ed al lettone Partito dell’Armonia Nazionale (non certo delle superpotenze della politica europea) – il gruppo socialista a cambiare il proprio nome nel 2009, in “socialista e democratico”, per lenire le contraddizioni interne, ecco che il Partito Democratico si spacca in due, sia sul piano della proposta politica, sia su quello del voto.
L’annuncio di questo programma ha mandato in brodo di giuggiole il mai rimpianto (a Parigi, Berlino ecc.) Romano Prodi che a Che Tempo che fa ha spiegato che questa era “una tappa per arrivare alla difesa comune, questo mi auguro, vedo e spero. Sono anni che predico la difesa comune, è necessario andare in questa direzione. Quando la Russia attaccò l’Ucraina mi dissi se avessimo avuto un esercito comune non lo avrebbe fatto”.
Pd spaccato e provinciale
Vada l’ottimismo, ma “Mortadella” è andato molto oltre. Su differente sponda ecco il segretario Elly Schlein che si è dichiarata favorevole ad una difesa comune europea, ma non ad un riarmo delle forze armate nazionali. Posizione degna della più applaudita “supercazzola”. Il segretario – un po’ svizzera, un po’ statunitense, un po’ italiana – pare non avere contezza che non esiste una forza europea, ma 27 forze nazionali.
Il voto espresso dai parlamentari europei del Pd è impietoso: 10 rappresentanti votano “si” al programma, 11 si astengono (non votano “no”). Quando i partiti erano una cosa seria le alternative erano solo due: o il segretario si dimetteva, o coloro che avevano votato contro la linea ufficiale venivano espulsi. Tertium non datur! Il punto è che il Pd mostra i suoi limiti valoriali e politici.
Nato a “freddo”, come una sintesi tattica di gran parte dell’antico “arco costituzionale”, si è sempre configurato come partito, ontologicamente, governista, nato solo per quello, in barba ad ogni proposizione morale e politica: insomma la feccia della Prima Repubblica. La Schlein, in uggia alla macchina del partito, e mai dimentica di un suo passato movimentista, a trazione Gauche caviar, anche se sostenuta da Dario Franceschini, ultimo cascame della Dc, ha sparigliato le carte e cerca di imporre una revisione del programma.
Le possibilità che questa modifica venga accettata sono, quanto meno, minime, visto il peso specifico del Pd all’interno del Parlamento, laddove la compagine “socialista” è diversamente compatta. Questo non importa, come non importano le gravi sfide che l’Europa deve affrontare. Il Pd, a guida Schlein – provinciale come sempre è quel partito dell’Italietta de sinistra (ma non troppo) è de facto sull’orlo di una scissione, esclusa solo dall’opportunità di molti (tutti) di conservare la “sedia”, ma non vuole rinunciare al frontismo nei confronti del governo, seguendo le spirali movimentiste che si agitano dal M5s alla Sinistra (quella che compra le Tesla, “perché costano poco”).
Il Pd della Schlein – nonostante tutte le affabulazioni, spesso incomprensibili, della segretaria – può avere voti, ma non ha proposte politiche, come quel partito non ne ha mai avute dal momento della fondazione. Nel film Skyfall (2012) James Bond rivolge queste parole ad un giovane Q: “la giovinezza non è una garanzia di innovazione!”
Daniele Biello – Atlantico