Il titolo di questo articolo riprende quello ben più famoso e coraggioso che fece Walter Tobagi il 20 aprile del 1980 sul Corriere della Sera. A differenza di tanti suoi colleghi giornalisti sbeffeggiava i brigatisti, non li raccontava con timore e rispetto. A differenza di tanti suoi colleghi giornalisti (Bocca, ma anche il mitico Sechi) scrisse le cose giuste anche quando le pallottole fischiavano. Fu ucciso per questo articolo. Onore a Tobagi e a tanti come lui che non si fecero pecore in quel mondo orribile di ieri.
Più modestamente, ciò che voglio dire oggi (senza nessun rischio a differenza del passato) è che la morte di Aldo Moro e dei cinque uomini della sua scorta, non è un “caso”, è il nostro 11 settembre. È orribile sentire le ricostruzioni che oggi si fanno. È uno dei rarissimi casi in cui la storia sembra fatta dai vinti e non dai vincitori. O se preferite i vinti, i terroristi, quei vigliacchi delinquenti che uccisero a sangue freddo, non sembrano sconfitti.
La loro cultura, la loro ideologia, il loro fanatismo sono vive e vegeti e “combattono insieme a noi”. È l’urlo della maestra in piazza che vuole uccidere i poliziotti. È l’odio della rete contro il “sistema”. Altro che rischio fascismo.
C’è una sorta di epica del terrorismo. Siamo ancora vittime della “geometrica potenza”, come Franco Piperno si permise di definire l’agguato. Non ci fu nessuna geometrica potenza, nessuna straordinaria organizzazione, nessuna sottointesa abilità. A meno di riconoscere qualità simili, che so, alla Banda della Magliana, alla Mafia dei corleonesi, alla ‘ndrangheta che conquista la Slovacchia. Nel racconto dei brigatisti di ieri, celebrati oggi come se fossero gli attori di un gesto, appunto, epico, si cerca una motivazione di fondo.
La banalità del male non ha una motivazione di fondo. Per i brigatisti e la vicenda Moro, sembra invece tutto più complesso. E invece no. Le cose sono scritte nelle vite dei ragazzi uccisi a Via Fani (come ci ha descritto Filippo Boni nel suo recente libro) e non nelle dichiarazioni contrite della Faranda, chiamata Adriana nella prima riga del libro di Fasanella.
I brigatisti non avevano alcunché di epico. Erano belve. Vigliacchi. Fanatici alcuni, traditori altri. Psicolabili tutti. Avrebbero dovuto passare la loro vita in carcere. Lo Stato si è ricordato di loro e della loro dissociazione, addirittura prima di riconoscere un sostegno alle vittime. E noi oggi siamo alla disperata e sciocca ricerca di un loro punto di vista.
Cinzia era a scuola il 16 marzo del 1978. Il papà, Oreste, l’aveva baciata proco prima per andare a morire. Il bidello chiama la maestra e poi Cinzia esce dalla sua classe: la vogliono a casa. Nessuno le dice niente. Nove proiettili avevano già ucciso il padre. Nel palazzone della periferia di Roma, la mamma l’aspettava. Il papà è morto. È stato ucciso.
Nel primo comunicato le Br si compiacciono dell’uccisione dei “famigerati corpi speciali”. Cinzia, non c’è più, è mancata per un tumore. La Balzerani, la Faranda e tanti assassini con loro ci spiegano oggi le divergenze nel commando e che cosa oggi provano.
Nicola Porro, Il Giornale