Tensioni e polemiche per un pugno di voti. Per cui tutto questo trambusto alla fine è molto probabile che si risolva nella classica ‘mossa’
Chissà: forse si dovrebbe consigliare a Giuseppe Conte, a Enrico Letta, a Matteo Salvini, a tutti gli altri leader e leaderini di questa scombiccherata classe politica, di fare qualcosa di semplice, quelle cose che fa ogni persona ‘normale’: un caffè al bar, una fila a un ufficio postale, la spesa in un super mercato. Farlo possibilmente in modo da non essere riconosciuti, e aguzzare la vista. Vedrebbero persone che scrutano con attenzione gli scaffali, alla ricerca di un’offerta, la più conveniente. E ascoltare i discorsi che si fanno. Si renderebbero conto che la maggior parte se ne impipa altamente delle ragioni che hanno spinto Luigi Di Maio a lasciare il M5S; che non si appassionano neppure per un’ette dei mugugni e dei maldipancia di Conte e di Salvini; che sono del tutto indifferenti ai ‘campi larghi’ di Letta. Si accorgerebbero che le persone ‘normali’ parlano di un caro-prezzi che non comprendono; di bollette che raggiungono le stelle; di costo della vita cresciuto e potere d’acquisto diminuito. Sono lavoratori di piccole e medie imprese che fanno i salti mortali per arrivare alla fine del mese, dipendenti e pensionati che contano anche i centesimi. Se ascoltassero, se osservassero, forse (molti forse), comprenderebbero perché anno dopo anno, da anni, cresce il partito dell’astensione e dell’indifferenza, e metà degli aventi diritto rinuncia a votare.
E dire che giorno dopo giorno, sulle scrivanie di lor signori, vengono depositati i risultati di sondaggi e di rilevazioni demoscopiche che qualche preoccupazione dovrebbero procurarla.
Si prenda, per esempio, il M5S. Un sondaggio Supermedia/Youtrend certifica che al 23 giugno il partito di Conte, vuoi per la vaghezza del suo leader, vuoi perché si è stanchi dei mediocri funambolismi di Beppe Grillo, vuoi per gli effetti provocati dalla scissione di Luigi Di Maio, perde un altro 1,6 per cento di consenso, e per ora si attesta al 10,7 per cento.
Grillini piangono, leghisti non ridono: la Lega prosegue la sua passeggiata del gambero, a favore dei Fratelli d’Italia. Il partito di Giorgia Meloni si attesta sul 22,5 per cento, mentre il partito di Salvini raggranella il 14,5 per cento; per restare nel centro-destra Forza Italia si attesta sull’8,3 per cento. Giova ricordare che tutte queste percentuali riguardano il 45-50 per cento dell’elettorato, visto che -si ripete- circa la metà degli aventi diritto rinuncia consapevolmente a questa facoltà. Per cui il consenso dei vari partiti è molto ridimensionato: Meloni, per dire, conquista il 22,5 del 45 per cento circa.
In questo contesto, litigi, contese, discussioni, battibecchi, polemiche; c’è un non detto di base: il timore di non ritornare più a Montecitorio o palazzo Madama nella primavera prossima, quando inevitabilmente si terranno le elezioni politiche.
Al riguardo, si lavora alacremente per una nuova legge elettorale, l’ennesima; si pensa a un proporzionale, che vede un po’ tutti d’accordo, anche i partiti come la Lega, che fino all’altro giorno si erano pronunciati per il maggioritario. L’ostacolo è costituito dalla soglia di sbarramento, preoccupazione comune di Italia viva di Matteo Renzi, di Azione e Più Europa di Carlo Calenda e Benedetto Della Vedova, e tutti gli altri ‘minori’. Una litigiosità segno di un nervosismo che attraversa un po’ tutti i partiti; e che si spiega con l’illusorio tentativo di guadagnare in questo modo i consensi perduti.
Il Presidente del Consiglio è consapevole di questa situazione. Mario Draghi per il momento può contare su un’intesa piena con il Quirinale. Il Presidente della Repubblica, ha fatto sapere, informalmente ma chiaramente, che non scorge alternativa all’esecutivo di Draghi, e ha fatto sapere ai bizzosi Conte e Salvini che il governo andrà comunque avanti fino alla naturale scadenza del Parlamento. In questo è confortato da una vasta palude di parlamentari consapevoli che non saranno più candidati ed eletti, decisi per questo a far durare la legislatura fino all’ultimo minuto secondo. Qui entra in campo Sergio Mattarella: una fitta rete di colloqui, telefonate, incontri privati. Molti sussurri, poche grida, come è costume consolidato del Quirinale. Una certezza: a Mattarella non garba per nulla tutto questo minacciar sfracelli da parte di Conte e in via subordinata, da Salvini. Per cui tutto questo trambusto alla fine è molto probabile che si risolva nella classica ‘mossa‘. Draghi darà soddisfazione apparente a Conte, e gli consentirà una via d’uscita che gli consenta di salvare per un minimo la faccia. Nella sostanza, tuttavia, non cederà se non su aspetti irrilevanti. Giovedì è il giorno fissato per il voto di fiducia, dunque nelle prossime ore avrà luogo un nuovo incontro Draghi-Conte, più di facciata che di sostanza. Palazzo Chigi dà molta più importanza al fissato incontro con i sindacati; le parti sociali promettono un autunno piuttosto duro e impegnativo, e Draghi vuole, per quanto possibile, disinnescare il maggior numero di mine che possono arrivare da quel fronte.
I grillini minacciano ora di uscire dall’Aula nel momento in cui si voterà la fiducia al decreto Aiuti al Senato. Un modo un po’ farisaico per evitare l’imbarazzo di votare per un provvedimento con norme per loro inaccettabili (uno per tutti: il termovalorizzatore a Roma), senza però votare contro il Governo. Al di là di quello che si dice, c’è l’affannosa ricerca di una possibile quadra: segnali di disponibilità su alcuni dei punti su cui il M5S tiene, e sui quali il governo ha già manifestato disponibilità a prescindere da Conte; senza però dare l’impressione che si tratta di ‘concessioni’: «Sono risposte al Paese, ed erano già in agenda», fanno sapere da palazzo Chigi.
Uno dei principali temi del confronto è il ‘salario minimo‘, questione su cui lavora da tempo il Ministro del Lavoro Andrea Orlando. E’ il tema dell’incontro di Draghi con i sindacati di martedì prossimo. Aperture potrebbero arrivare anche sul reddito di cittadinanza e sul superbonus, anche se su quest’ultima misura Draghi non sembra disposto a riaprire il dossier.
Il Partito Democratico ha scelto per ora di essere il maggior supporter del governo Draghi, e al tempo stesso di non rinunciare a un’alleanza strategica con il Movimento 5 Stelle senza per questo entrare in rotta di collisione con Di Maio. Difficile e ardua posizione di equilibrista, e all’interno del partito emergono perplessità su questa linea di condotta. L’ex segretario Nicola Zingaretti non la ritiene più attuale. L’ex capogruppo al Senato Andrea Marcucci paragona i 5 stelle a Rifondazione Comunista e al suo comportamento durante il governo di Romano Prodi: «Il M5s non può pensare di andare a lungo in questo modo. Il Paese ha bisogno di un esecutivo forte e stabile. I tempi dell’Unione non possono tornare».
A fine settimana la situazione sarà più chiara, anche se è facile previsione: le polemiche e le tensioni sono destinate ad aumentare. Questa la situazione, questi i fatti.
Valter Vecellio – L’Indro