Nell’ambito della comunità penitenziaria, che non riguarda solo i detenuti, continua lo stato di profondo disagio che colpevolmente non si vuole vedere
Il professore Sabino Cassese, giurista, giudice emerito della Corte Costituzionale merita sempre di essere ascoltato e letto, si sia o no d’accordo con quello che dice e scrive.
Non risparmia critiche sulla disinvoltura con la quale il presidente del Consiglio Giuseppe Conte aggira la Costituzione con i suoi decreti, il prolungamento dello stato d’emergenza, il sottrarsi alle proprie responsabilità nel caso del processo a Matteo Salvini per sequestro di immigrati; tutti episodi, che a suo giudizio, minano la credibilità dell’esecutivo.
Il professor Cassese, lungamente intervistato da ‘Libero’, non si sottrae a giudizi duri e taglienti nei confronti della giustizia e di chi è protagonista/attore di quel mondo. Parte dal ‘caso’ di Luca Palamara: «Un indizio. Ha rivelato pubblicamente una malattia grave, che gli addetti ai lavori conoscevano. Ancor più grave la lentezza con la quale si sta procedendo alla somministrazione della medicina. La sensazione è che la magistratura non voglia far pulizia dentro sé stessa. Le procure hanno un potere enorme e gli altri giudici non si oppongono. Manca la forza morale e culturale per rimediare a questa situazione e la riforma del Csm non servirà a nulla».
Per Cassese c’è uno sbilanciamento dell’equilibrio dei poteri a vantaggio della magistratura: «Comincia con la lunghezza dei processi, continua con l’assenza di autocontrollo delle procure, produce ‘naming and shaming’ (additare al pubblico ludibrio in piazza, senza processo), tutto alimentato da un’idea, prevalsa e accettata, della magistratura come cittadella non solo indipendente, ma anche autogovernantesi».
Sarà un caso che queste problematiche, questi argomenti sono rigorosamente esclusi dalle agende di tutti i partiti di maggioranza o di opposizione? La Giustizia in Italia è una vera e propria Cenerentola. Ricordate quando vararono il provvedimento relativo alla prescrizione? A cominciare dal Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede giurarono e spergiurarono che era solo l’inizio, e subito sarebbe seguita una più generale riforma del sistema giudiziario che avrebbe bilanciato gli allungati termini della prescrizione. Non ne hanno fatto nulla e nulla intendono fare.
Intanto, nell’ambito della comunità penitenziaria, che non riguarda solo i detenuti, continua lo stato di profondo disagio che colpevolmente non si vuole vedere.
Per dire: ben tre suicidi in un mese, l’ultimo alcuni giorni fa. A togliersi la vita una donna Assistente capo del Corpo di Polizia penitenziaria in servizio nella Casa circondariale Pagliarelli ‘Antonio Lo Russo’ di Palermo. Pochi giorni prima, altri due operatori di Polizia penitenziaria in servizio nell’Istituto di Latina.
Alla luce di questi fatti, il Garante nazionale dei detenuti e delle persone private delle libertà esprime innanzitutto «vicinanza alla Polizia penitenziaria e ai suoi operatori colpiti da questi drammatici eventi»; ma esprime anche «profonda preoccupazione per quanto accaduto, quale segnale di un disagio che non è più possibile non leggere».
Secondo il Garante «certamente sono molti e diversi i fattori che possono spingere una persona a compiere un gesto estremo come quello di togliersi la vita e volerli ricondurre a un’unica matrice è sempre riduttivo. Tuttavia, sono note le difficoltà del lavoro che la Polizia penitenziaria svolge in prima linea in carcere, in una situazione segnata da una serie di criticità, strutturali, gestionali e numeriche, rese ancora più evidenti in questi ultimi tempi dall’emergenza sanitaria in atto».
Prima di concludere: si intitola ‘Il viaggio della speranza’, il racconto dell’VIII congresso di ‘Nessuno tocchi Caino’, l’associazione per l’abolizione della pena di morte nel mondo, che si è tenuto a Milano, nel carcere di Opera, lo scorso dicembre. Il volume (edito da Reality Book), distribuito agli iscritti dell’associazione, ora è anche acquistabile sul sito. E’un ‘viaggio’ che esplora il sistema carcerario alla luce delle sentenze dei giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo.
Immagini e una sessantina di interventi ‘raccontano’ le carceri italiane, le loro enormi contraddizioni: un ‘non luogo’ in cui ‘finiscono i diritti’, nonostante l’articolo 27 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”). Due, fondamentalmente, le direttrici: ‘nessuno tocchi Caino’, che dà il nome all’associazione; e ‘spes contra spem’..
Il primo ‘binario’, spiega il segretario dell’associazione Sergio D’Elia, “è rivolto allo Stato, al Potere che cede, degrada alla aberrante, violenta logica dell’emergenza per la quale, nel nome di Abele, per difendere Abele, diventa esso stesso Caino, uno Stato-Caino che pratica la pena di morte, la pena fino alla morte e la morte per pena“.
Il secondo “è rivolto a Caino, al condannato che decide di cambiare sé stesso, convertire la sua vita dal male al bene, dalla violenza alla non violenza, perché sia appunto il cambiamento del suo modo d’essere profetico del cambiamento del mondo in cui vive, dell’ambiente in cui vive, del carcere in cui vive, del magistrato da cui dipende“.
Si dibatte sul futuro del sistema carcerario, e si lavora per avere “non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale“, come auspicato in giorni lontani da Aldo Moro.
Particolarmente significative, le testimonianze dei detenuti del carcere milanese di Opera, artefici del proprio cambiamento, e di altri ex detenuti. Emozionante l’incontro tra Stefano Castellino, sindaco del comune siciliano di Palma di Montechiaro, che a 18 anni perse lo zio assassinato dalla criminalità organizzata, con quattro concittadini in carcere a Opera per delitti mafiosi; fino all’esperienza di Antonio Aparo, in regime di 41-bis per 28 anni: “Il carcere duro finisce per creare altre vittime, i familiari dei detenuti. In trent’anni il trattamento nel regime penitenziario per me che mi trovavo al 41-bis è stato di poter usufruire di 15 giorni, che significa 360 ore, con i familiari. Visto che spesso si è detenuti a mille chilometri, non tutti possono usufruire di un’ora di colloquio mensile, quindi al massimo si fanno due o tre ore di colloquio all’anno. Quindi da 360 scendiamo a circa 90 ore di colloquio in 30 anni, pari a circa 4 giorni di colloquio in trent’anni. Qui ci viene in soccorso il telefono: dal 1986 fino al 2000 erano 6 minuti al mese che sostituivano il colloquio impossibile. Così si baratta un po’ la situazione. Poi sono diventati 10 minuti al mese. In un anno si raggiunge la famiglia per un’ora e mezzo. Quindici ore di telefonate, dieci anni. In trent’anni più o meno 45 ore perché se non si fa colloquio, c’è la telefonata. Quindi in trent’anni ci viene concesso di avere i contatti con gli affetti circa 6 giorni. Cos’è la rieducazione in questo senso? Me lo chiedo come ex 41-bis”.
Aparo racconta che quando è stato arrestato avevavivi alcuni miei familiari: “Oggi non ci sono più; non mi hanno dato nemmeno il permesso per andarli a vedere. Sarà una mia colpa, è vero, io ho sbagliato, l’ho sempre ammesso e sono qua. Però che c’entra trattare i familiari in modo disumano?”.
di Valter Vecellio