Decontestualizzata la frase sul “bagno di sangue”, eppure rimbalza ovunque da giorni. Uno studio rivela: Google ha “interferito” per aiutare i Dem 41 volte dal 2008
Da giorni imperversa sui media mainstream Usa, e rimbalza sui nostrani, persino sulle principali agenzie di stampa, la bufala secondo cui Donald Trump, durante un comizio, avrebbe minacciato un “bagno di sangue” nel caso in cui non venisse rieletto a novembre prossimo. Una balla colossale, una fake news. Eppure, ad alimentarla per giorni, con tutta la loro potenza di fuoco, gli stessi media che hanno promosso la crociata contro le fake news dei social.
La tecnica ovviamente non è nuova ed è stata usata ripetutamente nei confronti di Trump a partire dal 2016: decontestualizzare una sua affermazione per rafforzare la narrazione liberal di Trump pericolo per la democrazia e minaccia “fascista”. Surreale che giorni dopo, e contro ogni evidenza documentale, la bufala continui a girare.
Le parole di Trump
Come chiunque dotato di un minimo di buona fede ed etica professionale avrebbe potuto verificare direttamente dal video del comizio di sabato scorso a Vandalia, Ohio, l’ex presidente stava parlando dell’industria automobilistica e dell’invasione di auto elettriche cinesi via Messico. Da qui il riferimento al “bagno di sangue”, per l’automotive made in Usa e per l’intera economia del Paese, nel caso in cui alla Casa Bianca restasse Joe Biden. Questo il passaggio:
Se stai ascoltando, presidente Xi – e tu ed io siamo amici – ma lui comprende il mio modo di agire… Quei grandi, enormi stabilimenti di produzione di automobili che stai costruendo in Messico proprio in questo momento… e tu pensi di non assumere americani e vendere le auto a noi… Metteremo una tariffa del 100 per cento su ogni singola auto che varca il confine e non sarai in grado di vendere quelle auto, se sarò eletto.
E ha aggiunto:
Ma se non verrò eletto, sarà un bagno di sangue – e questo sarà il meno – sarà un bagno di sangue per il Paese. Questo sarà il minimo. Ma non venderanno quelle auto. Stanno costruendo enormi fabbriche.
Monopolio delle fake news
Nonostante il contesto fosse chiaro, e la bufala sia stata fin da subito smascherata proprio sui social, i media hanno continuato a titolare, e a mostrare clip tagliate, come se Trump avesse davvero minacciato un violento bagno di sangue in America, cioè una guerra civile, nel caso in cui non fosse rieletto.
Questo ad ulteriore dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, che la guerra dei media tradizionali alle fake news è in realtà una guerra per il controllo dell’informazione, o meglio della narrazione: vogliono mantenere il monopolio della diffusione di fake news.
Google ha favorito i Dem
Controllo della narrazione e censura si intrecciano. Mentre i media tradizionali cercano di tappare la bocca ai social con il pretesto di fake news che loro sono i primi a propagare, Big Tech è impegnata da anni nella censura a favore delle narrazioni liberal e persino nella promozione dei candidati Dem.
Da uno studio riportato ieri dal New York Post emerge infatti che Google avrebbe contribuito a promuovere le candidature di Obama e Clinton e a censurare i Repubblicani in ben 41 casi a partire dal 2008, interferendo così nelle ultime quattro elezioni presidenziali. Certo, il Media Research Center autore dello studio è una organizzazione watch-dog di orientamento conservatore, ma ciò che emerge non è da sottovalutare.
Elon Musk è intervenuto sull’argomento con un post sulla sua piattaforma: Google “interviene per aiutare i Democratici migliaia di volte in ogni stagione elettorale. Questo è prevedibile quando i loro team di censura (noti anche come Trust & Safety) hanno opinioni politiche di estrema sinistra”.
Nel 2008, afferma MRC, Google con i suoi algoritmi ha aiutato l’allora senatore Barack Obama contro Hillary Clinton nella corsa alla nomination democratica, censurando i sostenitori della Clinton e sospendendo gli account di autori di blog critici con Obama. Quattro anni dopo, secondo il rapporto, Google “ancora una volta ha favorito Obama rispetto a Mitt Romney“, e in precedenza si era rifiutato di correggere una “Google Bomb” che diffamava il candidato repubblicano alle primarie Rick Santorum.
Lo studio di MRC cita anche i dati del dottor Robert Epstein, che ha dichiarato al Congresso che l’algoritmo di ricerca di Google “ha spostato almeno 2,5 milioni di voti” a favore di Hillary Clinton contro Donald Trump nel 2016. Epstein ha affermato di aver condotto “dozzine di esperimenti controllati” da cui è emerso l’impatto della faziosità di Google.
Nel 2020, sempre secondo MRC, Google ha “preso di mira” Tulsi Gabbard, la deputata democratica delle Hawaii in corsa per la nomination del partito, “disabilitando il suo account Ads proprio mentre diventava la candidata più ricercata dopo il primo dibattito delle primarie”. Una fonte vicina a Google, riporta il Post, ha smentito, affermando che i sistemi automatizzati dell’azienda avevano segnalato attività insolite a causa di grandi variazioni di spesa nel tentativo di prevenire le frodi. La questione fu risolta nel giro di sei ore, secondo la fonte, e la successiva causa di Gabbard contro la società è stata archiviata.
MRC accusa Google anche di aver “soppresso fonti di notizie critiche nei confronti di Joe Biden“. L’apparato di censura di Google avrebbe avuto un impatto anche sulla corsa tra il repubblicano Herschel Walker e il democratico Raphael Warnock per il seggio senatoriale della Georgia nel 2022. Secondo il rapporto, i risultati di ricerca di Google “hanno favorito il senatore uscente Warnock nel distretto in bilico dove probabilmente risiedeva una percentuale maggiore di elettori indecisi”.
Una fonte vicina a Google ha dichiarato al Post che “le terze parti che hanno esaminato i nostri risultati non hanno trovato prove a sostegno delle affermazioni di pregiudizi politici”. “Non c’è assolutamente nulla di nuovo, solo un elenco riciclato di denunce infondate e inesatte che sono state smentite da terze parti o in tribunale”, ha detto al Post un portavoce di Google.
La stessa Google è in questi giorni criticata per Gemini AI, una Intelligenza Artificiale che ha prodotto immagini woke e storicamente imprecise: vichinghi dalla pelle nera, un papa donna e i nativi americani tra i padri fondatori.
Federico Punzi – Atlantico