Il grigio Zingaretti può cantare vittoria. Per il M5S un referendum non fa primavera, anzi, il movimento è sempre più piccolo e dilaniato al suo interno. Renzi si è fatto contare, e i risultati sono penosi, politicamente irrilevanti
E ora? Ora, come ben sa ogni cronista di qualche esperienza parlamentare, è bene guardare avanti; meglio: cercare di vedere, e capire.
Quali saranno le possibili, concrete, fattuali conseguenze di questo voto?
Fatta la debita premessa che è prematuro stabilire quale può essere il rapporto causa/effetto e che più di sempre sono complicate e complesse le alchimie della politica italiana, si può partire da dati di fatto: il 47 per cento di aventi diritto al voto si è astenuto, vuoi perché indifferente, o deluso o indeciso. Non è la prima volta. E’ una ‘rivolta’ che si rinnova, quella di una fetta consistente di elettorato; un fenomeno che meriterebbe una meditata riflessione.
Del restante 53 per cento dei votanti, il 70 per cento circa ha votato SI alla riduzione dei parlamentari. Il 30 per cento NO. Vittoria netta del SI. Ma anche qui: opportuno guardare al di là dell’apparenza. Si tratta del 70 per cento del 53 per cento. Nessuno può sostenere che sia la maggioranza degli italiani. E’, piuttosto, la maggioranza dei votanti; ma i SI, sono comunque una minoranza. Nessuno intende mettere in discussione il voto, alla fine della fiera, è il risultato, quello che conta. Ma se si vuole ragionare in termini politici, anche quel 47 per cento che ha disertato le urne, sommato a quel 30 per cento di votanti NO qualcosa significa e potrebbe rappresentare, solo ci fosse qualcuno capace di trovare le parole giuste per esser da loro ascoltato…
Doveva essere un plebiscito; non è andata così. Un buon terzo di votanti ha detto NO al taglio dei parlamentari. Peserà quando si parlerà della legge elettorale? Sarà, come molti chiedono, una ‘proporzionale’ con soglia di sbarramento che non pregiudichi la rappresentatività popolare, e preferenze che permettano all’elettore di scegliere il candidato preferito? Oppure ancora una volta un Parlamento bloccato, con una Camera e un Senato di nominati dalle segreterie dei partiti, e uno sbarramento del 5 per cento che non permetterebbe l’ingresso in Parlamento ai candidati di liste con circa due milioni di voti? Fare pronostici è davvero un azzardo.
Le amministrative: scontata la riconferma, in Veneto, del Presidente uscente, il leghista Luca Zaia, che incassa un trionfo che forse neppure lui ha messo in conto, superiore ai più ottimistici pronostici: un 70 per cento circa di elettorato, un successo legato quasi tutto alla sua persona, alla sua capacità di amministratore. Prevista anche la conferma, in Liguria, dell’uscente Gianni Toti; nelle Marche,dopo 25 anni di ‘regno’ del centro-sinistra, la presidenza va a Francesco Acquaroli, candidato unitario del centro-destra, di osservanza Fratelli d’Italia, la formazione politica di Giorgia Meloni. La Toscana resta nel campo progressista: si afferma il candidato del centro-sinistra Eugenio Giani; la candidata leghista Susanna Ceccardi non sfonda. In Campania è il trionfo del presidente uscente Vincenzo De Luca: al candidato del centro-destra Stefano Caldoro, lascia un misero 20 per cento. Anche in Puglia vittoria del centro-sinistra: l’uscente Michele Emiliano sconfigge il candidato della destra Raffaele Fitto.
Dunque, tre a tre. Ma la politica non è una partita di calcio. Il centro-destra può sostenere di aver conquistato una regione, ma è una vittoria di Pirro. L’unica soddisfatta è Meloni: incamera voti a spese di Lega e Forza Italia; ma nel complesso, il bacino elettorale della destra rimane intatto.
Legittimo il sospiro di sollievo il PD, e in particolare il suo segretario Nicola Zingaretti. La temuta Caporetto è scongiurata. Gli avversari esterni e interni devono ora rivedere le loro strategie, lasciare ancora per un po’ sepolte le loro scuri di guerra. L’opaca, ‘grigia’ tattica zingarettiana, al momento ora paga. Certo, il partito dovrà prima o poi porsi il problema che due regioni come l’Emilia-Romagne e la Toscana non sono più quei feudi indiscutibili di un tempo; ma ora il gruppo dirigente del PD sorride al pensiero che le due regioni non sono state espugnate.
Uno sconfitto c’è: Matteo Salvini. Dopo la vittoria in Umbria, è seguita la disastrosa (politicamente) estate del Papeete; da allora, ha inanellato una lunga serie di rovesci: i più clamorosi, la mancata conquista dell’Emilia Romagna, dove era sceso pesantemente in campo; e la sconfitta in Toscana, dove ha speso una sua candidata.
Non solo: Zaia, con il suo trionfo, acquista ora una dimensione nazionale, e di fatto fa ombra al suo finora incontrastato dominio; un dominio peraltro messo in discussione dal disimpegno polemico di Giancarlo Giorgetti, potente uomo-macchina del partito. In più, sul collo, il ‘fiato’ di imbarazzanti inchieste della magistratura.
Il M5S si intesta l’effimera vittoria del referendum; ma per quanto Luigi Di Maio esulti, i SI del referendum non compensano i magri raccolti dei candidati grillini alle amministrative; un grave errore, essersi fatti contare. Appare più che mai evidente la miopia del gruppo dirigente pentastellato, l’inconsistenza politica, la conseguente scarsa credibilità presso l’elettorato. E’ un Movimento sempre più dilaniato al suo interno, una guerra clandestina tra i seguaci di Davide Casaleggio, Alessandro Di Battista, Luigi Di Maio; e un ‘garante’, Beppe Grillo, che non riesce più a controllare il Golem cui ha dato vita.
Da ultimo, Matteo Renzi e la sua Italia Viva: risultati complessivamente penosi; politicamente irrilevanti: la conferma che si tratta di una rana che si crede bue, e alla fine scoppia. Anche dove si è realizzato un cartello comune con Azione di Carlo Calenda e Più Europa di Emma Bonino-Benedetto Della Vedova, la certificazione che le unità posticce non reggono; che sommare uno più uno più uno, in politica non fa mai tre, resta uno. Ora si sa quanto ‘pesano’. Ne prenderanno finalmente, atto e si comporteranno di conseguenza?
Ci sarà una crisi del Governo di Giuseppe Conte? In realtà non la vuole nessuno; oltre i tre quarti dei parlamentari in carica non saranno più rieletti; e nessuno di loro ha intenzione di lasciare la ‘postazione’ prima del dovuto.
Un’alternativa seria all’attuale coalizione non esiste. Andare a elezioni anticipate in queste condizioni sarebbe una follia: per chi si candida, ma soprattutto per il Paese: una crisi economica che galoppa, una ripresa che non si vede; una pandemia che rischia di provocare nuovi danni; l’Europa e le banche che controllano ogni nostro sospiro, ben attente a quello che facciamo, e l’obbligo di essere e apparire credibili, se si vuole poter utilizzare i fondi europei che ci sono indispensabili…
Insomma, dove non arriva la virtù, interviene la necessità. E presto scatterà il semestre bianco. La legislatura, nonostante mille turbolenze, probabilmente si esaurirà a naturale scadenza. Non è detto sia un male, anzi.
di Valter Vecellio