Per la prima volta nella storia d’Italia una donna varcherà la soglia di palazzo Chigi e presiederà il Governo: Giorgia Meloni, una donna di destra, alla guida di un governo di destra-centro. Sconfitti PD e Lega. Conte e Berlusconi hanno tenuto. Vivacchiano Calenda e Renzi. L’edificio Italia è comunque destinato a restare nel disegno dei suoi muri maestri
Lo si dice spesso: ‘Tanto non cambierà nulla’. Invece no. Eccome se cambia. La si pensi come si vuole, queste sono elezioni storiche. Se non vi saranno clamorosi colpi di scena che non si riesce a immaginare, per la prima volta nella storia d’Italia una donna varcherà la soglia di palazzo Chigi e presiederà il Governo. Questa donna si chiama, Giorgia Meloni, ha vinto come un po’ tutti avevano pronosticato. Una donna di destra, leader di un partito prettamente maschilista. Una Sonora beffa, per i progressisti, per il Partito Democratico, per la sinistra italiana, che non ha saputo (e voluto) fare di meglio e di più.
Gli sconfitti: il Partito Democratico di Enrico Letta, la Lega di Matteo Salvini.
Due dati per spacciati, Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle, e Silvio Berlusconi, padre-padrone di Forza Italia, hanno tenuto; solo per questo vanno inseriti tra i vincitori.
Vivacchiano Carlo Calenda e Matteo Renzi: il cartello di Azione raggiunge i risultati sperati; sostanzialmente fallita l’operazione e anzi, di fatto hanno lavorato per il centro-destra, che dovremo cominciare ad abituarci a chiamare destra-centro, dal momento che nella coalizione è Fratelli d’Italia il partito largamente dominante. Meloni, nel suo primo, emozionato, discorso dopo il voto, l’ha fatto capire chiaramente.
I giochi a questo punto sono fatti. Si dovrà vedere come saranno ripartiti i seggi; ma il dato assodato è la sconfitta secca del PD un po’ in tutti i collegi, anche quelli considerati blindati. Le ragioni sono essenzialmente tre: il PD di Letta non ha scaldato il cuore degli elettori; i collegi elettorali non sono più quelli delle elezioni precedenti, la dissennata riduzione dei parlamentari accettata dal PD comporta uno snaturamento dei collegi; e il PD ha pagato questa sua ennesima dissennatezza.
Per esempio alcuni a Roma considerati sicuri, non lo sono più perchè gonfiati enormemente. Il PD questo non l’ha valutato, o non l’ha valutato a sufficienza. C’è poi un elemento che pochi prendono in considerazione: sono aumentati gli elettori che hanno deciso di non votare; si tratta in larga misura di elettori ex PD o comunque di sinistra delusi. Il PD pensava che aver inglobato Luigi Di Maio avrebbe per conseguenza sgretolato in M5S. E’ accaduto il contrario. Di Maio esce così di scena; Conte tornerà a essere un interlocutore del PD (ma non sappiamo quale PD). Non solo: Conte riesce ad affrancarsi dal padre-padrone Beppe Grillo. Bisognerà ora cercare di capire come mai il M5S è riuscito a essere il primo partito in regioni meridionali, un partito a doppia cifra al Nord.
Fratelli d’Italia e Meloni dovranno dimostrare quello di cui sono capaci. Una scommessa. Una scommessa piena di incognite. Il fatto indiscutibile è il responso uscito dalle urne: un governo di destra-centro, a guida Meloni.
La Lega ha perso nelle sue roccaforti: Lombardia, Veneto, Friuli. Per Salvini un grosso problema, e ora dovrà fare i conti con una opposizione interna che forse si deciderà a farsi sentire. Il partito leghista forse diventerà meno ‘leninista’ di quanto sia oggi. La delusione del risultato sarà comunque compensate dalla partecipazione al Governo.
Il problema vero è per Letta: una catastrophe, sconfitta la sua tattica, sconfitta la sua strategia. L’opposizione interna già si era fatta sentire nei giorni scorsi, oggi presenterà il conto. Letta tornerà a insegnare a Parigi? Scenderà in campo il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini? Ogni ragionamento e previsione sono premature. Però il PD di Letta è il grande sconfitto di queste elezioni.
E ora? Queste elezioni appena concluse sono segnate da previsioni che hanno trovato puntuale riscontro, e da novità/delusioni/illusioni che non tutti avevano previsto. Nel suo insieme, tuttavia, l’edificio è comunque destinato a restare nel disegno dei suoi muri maestri. Non solo nell’interesse del Paese. E’ che pur autonomi si è comunque interdipendenti, condizionati da imprescindibili fattori esterni: Washington, Bruxelles, le grandi banche, gli investimenti internazionali, la situazione geopolitica con i suoi protagonisti russi, cinesi, indiani, i Paesi detentori delle indispensabili materie prime e rare, le fonti energetiche, piaccia o no inevitabilmente condizionano e influiscono nelle scelte e nelle decisioni di un governo, quale possa scaturire dalle urne, e dal conseguente, successivo ‘gioco‘ di ‘do ut des‘ che ne scaturirà.
Anche da queste elezioni, ampia materia di riflessione, e chissà che questa volta la cronaca -visto che non lo fa la storia- insegni qualche cosa. Al PD, la cui proposta politica, per i suoi contenuti, e per il modo di porgerli (e anche per chi li incarna), non dice nulla all’elettorato, neppure quella parte un tempo più fedele. Hanno davvero tanto su cui pensare e rimproverarsi. Sarà la volta buona?
Il fatto è che si dovrebbe finalmente capire che i processi politici sono come quelli storici: richiedono tempo, il ‘tutto e subito’ è un fascinoso slogan del ’68 che fu, infantile e vuoto. Occorre invece la pazienza e l’ostinazione dell’artigiano che cesella di bulino, e sa che tutto è perfettibile, un lavoro destinato a non concludersi mai e rinnovarsi sempre.
Ora ci sono dei ci sono dei ‘passaggi’ istituzionali. Scrutinati i voti, si proclameranno gli eletti. Un passaggio tecnico/politico che per la prima volta sperimenta la legge costituzionale che ‘taglia’ i parlamentari riducendoli da 945 a 600. Il 13 ottobre la prima seduta: deputati e senatori eleggeranno i loro presidenti. Sara’ una cartina al tornasole, per le maggioranze reali che si costituiranno e per il modo di procedere, cercando convergenze o unilateralmente, dialogo/confronto, o arrogante imposizione del più numericamente forte.
Eletti i presidenti di Camera e Senato, il Presidente della Repubblica avvia le consultazioni, quelle ‘ufficiali’. E’ ragionevole pensare che cominceranno a metà ottobre. Prima l’ex presidente Giorgio Napolitano (date le sue condizioni di salute, sarà una telefonata), i presidenti di Senato e Camera, i rappresentanti dei partiti presenti in Parlamento, capigruppo e leader. Giocoforza, per assicurare un Governo che onori gli impegni già assunti in sede di Unione Europea, saranno consultazioni veloci, due o tre giorni; poi finalmente l’incarico a un Presidente del Consiglio. Si sa già che Sergio Mattarella intende procedere, per quanto sta il lui, a passo di carica: proprio in vista delle scadenze urgenti che incombono, dalla scrittura della manovra al vertice del G20 in Indonesia.
Dipenderà molto dai leader dei partiti. Non si può certo escludere che vi siano prima incarichi esplorativi, di solito affidati ai presidenti di Senato e Camera. E neppure che sia assegnato una sorta di pre-incarico a esponenti di spicco istituzionali. E’ già accaduto, una consolidata prassi. La forma è comunque ‘garantita’ dall’articolo 92 della Costituzione: «Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri».
Se le consultazioni del presidente del Consiglio incaricato hanno esito positivo, torna al Quirinale, scioglie la riserva, viene nominato Presidente del Consiglio. Comunica poi la lista dei ministri: nominati dal Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio. Segue il rituale giuramento, al Quirinale, nelle mani del Presidente della Repubblica. Poi a palazzo Chigi, per l’altro rito, quello della ‘campanella’: il presidente del Consiglio uscente la consegna all’entrante. Il primo squillo di quella ‘campanella’ da il via alla riunione del primo nuovo Consiglio dei ministri.
Adempimenti vari (nomina il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e Segretario del Consiglio, assegnazione delle deleghe ai ministri senza portafoglio) e il governo è ufficialmente in carica.
Dopo un paio di giorni il neo presidente del Consiglio si presenta alle Camere per ottenere la fiducia. Servono almeno 201 sì alla Camera e 104 sì al Senato. Incassata la fiducia, solo allora l’esecutivo è nel pieno delle sue funzioni e può cominciare a lavorare.
Chissà se quei 201 sì alla Camera e 104 al Senato rispecchieranno davvero, e fino in fondo, quello che emerge dalle urne. Più che mai occorrono forza e coraggio.
Valter Vecellio – L’Indro