La sinistra vince con pochissimi votanti, senza il voto popolare, perdendo l’elettorato di riferimento. La destra perde per candidati inaccettabili da chi è di destra ma non fascio tendente
Indipendentemente dai risultati, in gran parte ormai prevedibili, ciò che di nuovo colpisce come una staffilata, e dovrebbe fare riflettere i nostri politici, è l’affluenza alle urne. Anche laddove la contesa era più calda, come a Roma, la gente non è andata a votare, la stragrande maggioranza degli elettori è rimasta a casa. Perfino la destra, che, rivoltando la ‘logica’ della politica (e su ciò ci sarebbe da discutere davvero!), è più presente in periferia che in centro, non va a votare, proprio quando il voto era più importante per loro.
In questo c’è omogeneità. Ed è un primo dato sul quale riflettere.
Il secondo è che anche nelle zone più ‘popolari‘, dove la destra, del tutto ‘contro natura‘, è favorita, non sfonda, ma la sinistra non guadagna voti.
E dunque, non diversamente da altre città italiane, ivi compresa Napoli, dove il voto è stato più che altro un voto di stanchezza per un candidato senza avversari, salvo Antonio Bassolino, la ‘speranza‘ che le cose possano cambiare, e che vi sia un modo per farlo, non c’è. E quindi, si vota il candidato più ‘affidabile‘, nel senso che non faccia sfracelli, anche se non ha un’idea che sia una sia di come funziona la macchina comunale (è il caso di Roberto Gualtieri a Roma e di Gaetano Manfredi a Napoli), sia di quali siano i problemi della città. Dico ‘affidabile’ per dire legato all’establishment cittadino, per così dire, che se ne sente rassicurato. I pochi che hanno votato a Roma e a Napoli, sono legati al cosiddetto establishment economico ed edilizio.
Infatti, la ‘vittoria‘ della sinistra, anzi, di quel guazzabuglio che fa capo (e nemmeno poi tanto) al PD che si autodefinisce centro-sinistra, è una vittoria più che dimezzata. Per due evidenti motivi. Il primo è la chiara mancanza del voto popolare, che per un partito che dice di difendere le masse (portando sul palco del sindacato la signora Monica Cirinnà?) è un cambiamento profondo della propria natura e dei propri ‘ideali’. Ora che il PD sia ormai poco più della vecchia Democrazia Cristiana è banalmente evidente: ormai trovarci uno che abbia una storia vagamente di sinistra è cercare il più classico (e piccolo) degli aghi in un pagliaio, ma che non riesca a smuovere proprio le masse che dice di difendere è abbastanza sconvolgente. Ci si potrebbe aspettare un immediato congresso di riflessione e strategia, ma, state tranquilli, non ci sarà. Il secondo motivo è molto, ma molto più preoccupante. Il PD, grazie in particolare alle sue liste ‘civiche’, data la cessione dei voti da parte di Carlo Calenda (per pochi che ne siano passati, sono passati lì), e data infine la scelta di Virginia Raggi di non indicare il voto a Gualtieri, e quindi di orientare quella parte consistente di ‘voto popolare’ raccolto in campagna elettorale e con la sua sindacatura, a destra o comunque non verso il PD, la dice lunga sulla perdita di contatto del PD con il suo, benché ormai solo teorico, elettorato di riferimento. E quindi, riesce difficile non constatare non solo e non tanto che il PD è diventato il partito della ZTL, ma che non può più contare sul suo elettorato tendenziale.
È, o dovrebbe essere, questo un momento topico, un momento in cui fermarsi a riflettere, e farlo sul serio. Certamente per comprendere, il PD stesso intendo, quale sia la sua idea di società, a chi intenda rivolgersi oltre ai Parioli, ecc. Le elezioni politiche, sia pure in tempo regolare, sono fissate al 2023 e il 2023 è domani. Ma l’impressione generale (al di là della buffoneria della Agorà, con l’accento sulla a) è che una cosa del genere non passi nemmeno per i più reconditi e depressi neuroni del cervello di ‘Letta il dotto’, che peraltro celebra il trionfo senza ‘trionfalismo’ -testuale! Ma dire che queste elezioni siano trionfali per il PD, induce, con tutta l’ironia del caso, a domandarsi che vino beva Letta.
Ma tant’è: il PD, a Roma come a Firenze, a Torino come a Napoli (dove è addirittura plateale), appare sempre più il partito nonché dell’establishment in senso stretto, del ceto medio-alto, e dei palazzinari, per intenderci. Spiego meglio perché ho citato i palazzinari. Costoro, in qualunque circostanza politica sono sicuramente uno dei migliori motori di avviamento della ripresa economica, ma sono anche i più legati allo status quo e ai condoni fiscali e alle ‘semplificazioni’ normative. Ne deriva, temo -anzi, lo vedo chiaramente-, che il PD perde completamente la propria (benché ipotetica) capacità di inventare una linea di sviluppo della società italiana, ci rinuncia del tutto, a favore del mantenimento dello status quo, salva magari qualche ‘fiammata’ propagandistica, tipo reddito di cittadinanza. E quindi, la sua capacità di influenzare le scelte del Governo, si riduce moltissimo, anche perché idee non ne ha.
Il primo a dolersene sarà proprio Mario Draghi, che rischia sempre di più di trovarsi intrappolato in quella specie di melma appiccicosa che gli ha steso davanti il Presidente della Confindustria. Quando quest’ultimo, infatti, dice: «Non possiamo permettere che la politica arresti questo processo, ed è per questo che continueremo a sostenere questo esecutivo» (tra l’altro rivoluzionando la tradizionale, apparente, terzietà di Confindustria rispetto alla politica), non dice quali sarebbero le riforme che non si deve permettere alla ‘politica’ di interrompere. Ma visto il pulpito da cui parte quella dichiarazione arrogante e violenta diventa un preciso programma politico, che Confindustria cerca di fare credere che sia il progetto del Governo, o meglio quello che il Governo sarà indotto, dagli industriali, ad adottare. Orbene, Draghi non mi sembra il tipo che si fa dettare l’agenda da altri, ma se non ha un’altra sponda a cui appoggiarsi delle due l’una: o il PD si adatta silente ad una sua politica conservatrice e filo-industriale (che è tutt’altro che filo-borghese e liberista) inevitabile, o si adatta all’idea di diventare un elemento secondario della vita politica di questo Paese, lasciandolo nelle mani di questa pessima Confindustria, e quindi condannandolo alla vita di assemblatori e di gestori di alberghi e ristoranti che la Confindustria immagina.
In questo quadro, è incomprensibile come si sia giunti a Trieste a scontri particolarmente violenti, con una minoranza di ‘scalmanati’ (cito Silvio Berlusconi) che ora diventano eroi, eroi isolati, ma utilissimi, comodissimi, grandemente al di là di ogni speranza e desiderio del duo Matteo Salvini-Giorgia Meloni, che ora soffieranno sul fuocherello fino alla nausea. E dunque, una volta di più, la signora Luciana Lamorgese e chi la circonda (ma stavolta più chi la circonda) si dimostra inadatta al compito. E determina, o almeno facilita, sia le ovvie dichiarazioni polemiche sui poveri manifestanti pacifici malmenati dalla cattiva Polizia, sia il balzo sul tema del solito Di Battista, Dibba per gli amici. Ma, tra l’altro, non vedo cosa vi sia di male nella constatazione di Mattarella circa il fatto che, in realtà è una minima minoranza, per di più violenta, quella che cerca di opporsi alla banalità della certificazione vaccinale.
Il tema reale, però, è che la evidente sconfitta della destra, ha una ragione molto più profonda di quanto non si dica da parte di molte delle ‘grandi firme’. La destra in Italia è destra pura e semplice, molto vicina, nei toni e nelle parole, al fascismo, che, non per caso, non sa condannare. Ma specialmente, e l’ho scritto qui molte volte, non è una destra borghese, liberista, eccetera, perché in Italia una destra seria non esiste, e non esiste da molto tempo, forse fin dalla fine della guerra. Per cui, purtroppo la destra trova sempre candidati alla fine inaccettabili da chi è di destra, ma non di questa destra.
Ho scritto ‘purtroppo’ non per errore. Ma perché ciò che si vede è che la sinistra non fa altro che interpretare le due parti in commedia, ma sempre di più quella conservatrice. Sarebbe venuto il momento che il PD, contento di questa vittoria piccolissima se non inesistente, trovasse la forza e la voglia di costruire un programma, un’idea, una visione (come spesso si dice) per l’intero Paese, che non si limiti come fino ad oggi è stato, a gestire l’esistente e ad affidare acriticamente a personaggi di valore, ma esterni ed estranei alla sinistra, il compito di portare l’Italia fuori dalla crisi, ma sempre più su posizioni conservatrici a dir poco.
Questo nostro Paese ha, avrebbe, la possibilità di diventare un Paese guida di una intera Unione europea, la possibilità di ridiventare quel faro di civiltà che è stata nel passato e che oggi ha rinunciato ad essere, affidando, non per caso, a Draghi il compito tecnico, ma conservatore, di gestire il presente e di rallentare il declino, che è il vero tema. Da queste elezioni emerge una sinistra che vince con pochissimi votanti, ma vince e che quindi può (potrebbe, ahimè) diventare uno stimolo ideale per Draghi per spingerlo anche a portare la voce dell’Italia in Europa e non solo.
Giancarlo Guarino – L’Indro