di Domenico Ricciotti
Chi si aspettava il solito Trump sempre al di sopra delle righe, un po’ polemico e un po’ spaccone si è dovuto ricredere.
Infatti, chi ha ascoltato il presidente USA al suo primo discorso sullo Stato dell’Unione è rimasto favorevolmente sorpreso: toni pacati, proposte limitate, argomenti precisi conditi da una presentazione asciutta e stringata. Nulla a che vedere con la consueta retorica ampollosa e demagogica, condita da frasi fatte e argomenti triti, giusto per titillare la pancia dell’America più conservatrice.
Certo è stata la consueta parata dei più cari argomenti di Trump, ma trattati con un modo molto sobrio e efficace, senza nessuna caduta verso la retorica, ma con un’attenzione tutta nuova per Trump all’azione. Ma alcuni osservatori hanno trovato alcune somiglianze con i discorsi e lo stile di Obama, in quanto vi è stato un fortissimo richiamo verso la fiducia nelle capacità americane, anzi di tutti gli americani, di fare fronte a tutte le avversità e superale insieme. Tuttavia questa non è stata una caratteristica di Obama, ma è stato uno stile inconfondibile di Reagan e della sua amministrazione. Cosa che non fa altro che confermare la netta sensazione che Trump si richiami al modo di fare, di agire e di comunicare del grande presidente repubblicano degli anni ottanta.
E il richiamo al netto e consistente taglio alle tasse per far ripartire l’economia americana, che ancora fluttua nell’incertezza e nella tiepida ripresa, con un linguaggio tutto teso all’ottimismo e alla speranza, è il miglior testimone di una ripresa della cosiddetta “reaganomic”, alla quale si unisce un notevole impegno economico per aumentare le spese per gli armamenti, ed ecco che il piatto è servito. Come funzionò allora, Trump spera che funzionerà oggi.
Questo comunque non è certo. Tuttavia, si deve riflettere come in economia le teorie degli studiosi non hanno mai la certezza di spiegare gli eventi, sia nel prima che nel mentre accadono, ma li spiegano sempre e solo a posteriori. Solo la loro spocchia le accredita di valenza di leggi economiche. Invece, Reagan, in barba a tutte le teorie economiche, riuscì a dimostrare che l’ottimismo in campo economico è alla stregua di una forza invincibile. Reagan vi profuse tutte le sue energie di comunicatore e l’America lo seguì, così dopo il primo quadriennio stentato, lo sviluppo economico negli USA si affermò. E non fu un risultato effimero, dato che sia Bush padre che lo stesso Clinton poterono proseguire nel solco tracciato da Reagan.
Oggi tocca a Trump vedere se è possibile invertire il barometro della sfiducia e riportarlo sul quadrante della positività. Al momento sono ancora solo promesse, ma anche i suoi più feroci detrattori hanno ammesso che il discorso sullo Stato dell’Unione potrebbe essere la chiave di volta, ovvero dalla demagogia parolaia e inconcludente della campagna elettorale alla concretezza dell’azione, supportata da un ottimismo che scardini il senso di impotenza che sta generando l’economia costretta e ridotta nel solo ambito della finanza internazionale. E Trump si rivolge all’America dei produttori e non a quella degli speculatori.
Se il mondo della produzione ascolterà le parole di Trump e se lui saprà parlare a questa America allora assisteremo ad una inversione di tendenza, non solamente limitata agli USA, ma che avrà un sicuro effetto di trascinamento sull’economia reale in tutto il mondo.
Ma la finanza mondiale e gli speculatori, coloro che lucrano sui debiti sovrani degli stati lasceranno le loro posizioni di potere? Questo è il vero interrogativo al quale solo i prossimi quattro anni sapranno rispondere.