FONTE: Articolo tratto da Separare, Comitato promotore per la separazione delle carriere nella magistratura
Con la riforma dell’articolo 111 (legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2), che stabilisce la formazione della prova in dibattimento, nel contraddittorio delle parti, davanti ad un giudice terzo ed imparziale, il Legislatore ha scelto con chiarezza il modello accusatorio del processo penale in tal modo abbandonando definitivamente la tradizione inquisitoria del processo che la Carta Costituzionale del 1948 aveva perpetuato.
Tuttavia, nella Costituzione persistono norme che riflettono la visione inquisitoria del processo come era concepito dal Costituente del 1948 e, correlativamente, mancano specifici precetti che darebbero piena attuazione ai princìpi del processo accusatorio: la terzietà del giudice e la parità delle parti nel contraddittorio.
Ebbene, proprio al fine di conferire coerenza alla piena attuazione della scelta in senso accusatorio del processo penale operata dal Parlamento, è necessario dunque intervenire per rendere effettiva la terzietà del giudice che costituisce il presupposto dell’imparzialità delle decisioni.
Per fare ciò è necessario intervenire sulle norme del Titolo IV della Costituzione, per separare la magistratura giudicante da quella requirente.
Il concetto di “separazione” non va inteso, nello spirito dell’iniziativa di legge popolare, in senso burocratico: non è questione di collocazione di dipendenti pubblici nei ranghi della pubblica amministrazione. Ne va della stessa “anima” del processo penale. Il modo migliore per avvicinarsi alla “verità” è la dialettica ed è questa la base ideale dell’art. 111 della Costituzione. Se così è il minimo pretendibile e che le parti del processo abbiano le stesse possibilità in concreto di far valere le proprie ragioni. Ciò che non è certo garantito da una contiguità professionale e di categoria del giudice con una delle parti: la pubblica accusa, appunto.
La Costituzione va dunque riformata nelle parti che riflettono l’antica e superata visione inquisitoria e che impediscono la piena attuazione dei principi del giusto processo da essa stessa recati. E’ un’opera di armonizzazione con la riforma introdotta con la legge 23 novembre 1999, n. 2, che prevede un Giudice imparziale e terzo. L’imparzialità è concetto che attiene all’indifferenza rispetto agli interessi coinvolti nel processo; la terzietà si traduce invece nell’equidistanza tra le parti e dunque all’estraneità alle funzioni dell’accusa.
Due soggetti distinti, due ruoli distinti: in un contesto nel quale l’interscambiabilità delle funzioni (requirente e giudicante) è libera e, spesso, legata a logiche di sede o di carriera, del tutto avulse dalle attitudini, dalle sensibilità e dalle capacità professionali dei singoli, il pregiudizio ultimo cade sulle spalle del cittadino che, a torto a ragione, si trovi ad affrontare un processo.
L’attuale tendenza a valutare il maggior numero di condotte possibili alla stregua del diritto penale (c.d. pan-penalizzazione dei comportamenti), ha del resto comportato la proliferazione di fattispecie criminali che attengono sempre più a settori altamente tecnici. Ne è conseguita una necessaria sofisticazione delle tecniche di indagine, la quale, a sua volta, pretende che la scelta dei ruoli avvenga secondo criteri diversi, predeterminati e non casuali, che tengano conto delle specifiche competenze ed inclinazioni
Il Pubblico Ministero deve essere preparato, il Giudice deve essere, sentirsi ed apparire “equidistante”.
La separazione delle carriere non è “contro” la categoria dei magistrati: essa ha, prima di tutto, una funzione di esaltazione della funzione giurisdizionale. In un sistema come il nostro, dove il Pubblico Ministero svolge le indagini in maniera diretta, con ampi poteri di iniziativa nella ricerca delle prove e con la polizia alle proprie dipendenze, il ruolo del Giudice deve essere visibilmente separato agli occhi degli imputati e dei cittadini tutti. In questo modo egli sarà pienamente legittimato nel suo ruolo e le sue decisioni degne del massimo rispetto.
Equidistanza e terzietà si attuano non soltanto con il divieto di osmosi tra le funzioni, ma anche attraverso il superamento dell’attuale forma di autogoverno concentrato in un unico CSM, che decide dello status, del reclutamento, e della disciplina sia dei magistrati requirenti che di quelli giudicanti. È facile intuire che la logica corporativa, sindacale e correntizia, che governa l’elezione ed il funzionamento dell’organo di giustizia domestica non può investire congiuntamente sia i P.M. che i Giudici, i quali devono decidere della fondatezza o meno delle richieste processuali avanzate dai primi. Non si può dare, in un sistema come quello delineato dal “111”, una solidarietà di corpo che coinvolga una delle parti e, per così dire, l’arbitro della contesa giudiziaria.
La separazione delle carriere diventa quindi ineludibile per dare piena attuazione al giusto processo e per rendere coerente il testo costituzionale che, in alcune parti, come quelle che con questo progetto di revisione costituzionale si intendono modificare, fu ispirato dal modello inquisitorio all’epoca vigente. Essa rappresenta una tappa fondamentale verso un sistema che maggiormente garantisce i cittadini, ma anche gli stessi magistrati: si avranno organi dell’accusa più capaci e preparati e giudicanti più liberi e legittimati nel loro ruolo.
Non sono secondarie altre ragioni, che hanno quale comune denominatore le garanzia di libertà e la dignità del cittadino nell’ambito processuale.
I nostri giudici e pubblici ministeri non solo sono reclutati con lo stesso concorso e possono spostarsi da una funzione all’altra, ma svolgono anche le loro funzioni negli stessi palazzi, hanno una quotidiana dimestichezza di rapporti di lavoro e anche sociali, appartengono alla stessa associazione sindacale e alle stesse correnti associative, eleggono congiuntamente, per il tramite di organizzate campagne elettorali, i loro rappresentanti al CSM. Tutto ciò ha creato – e non poteva non creare – diffuse solidarietà di corpo, innumerevoli, quotidiane occasioni in cui pubblici ministeri e giudici si comunicano le reciproche difficoltà di lavoro e le reciproche aspettative anche riguardo ai singoli casi che stanno trattando. È un fenomeno diffuso che è particolarmente evidente nei rapporti tra pubblico ministero e giudice per le indagini preliminari.
È questa, peraltro, una valutazione che è sostenuta autorevolmente dallo stesso Parlamento europeo che in una delibera relativa al rispetto dei diritti umani nell’Unione europea afferma, tra l’altro, che «è anche necessario garantire l’imparzialità dei giudici distinguendo tra la carriera dei magistrati che svolgono attività di indagine (examining magistrates) e quella del giudice al fine di assicurare un processo giusto (fair trial)» (A 4-01 12/1997).
La tesi dei magistrati secondo cui attualmente il pubblico ministero sarebbe, a somiglianza del giudice, un operatore imparziale – e quindi partecipe della cultura della giurisdizione – non è corroborata da nessuna indicazione che la renda credibile. Non viene in alcun modo spiegato perché l’appartenenza allo stesso corpo dei giudici e dei pubblici ministeri porterebbe questi ultimi, che dirigono attività di polizia, ad assumere sui singoli casi orientamenti di imparzialità del tutto simili a quelli dei giudici. La previsione normativa del codice di procedura penale che più direttamente era intesa a garantire un orientamento non accusatorio del nostro pubblico ministero, e cioè quella in cui si prevede che egli debba ricercare anche le prove a discolpa dell’imputato, si è rivelata del tutto inefficace sul piano operativo.
L’evoluzione del ruolo del pubblico ministero ha conferito al requirente un ruolo più pregnante nella direzione delle indagini. Si tratta, da un canto, dell’evoluzione e della maggiore complessità dei fenomeni criminali e del loro accresciuto ambito di azione (terrorismo, criminalità organizzata e riciclaggio di denaro sporco, reati finanziari, reati informatici, etc.) e, dall’altro, dell’evoluzione delle tecniche e delle tecnologie di indagine. Entrambi questi aspetti dell’evoluzione del ruolo del pubblico ministero rendono sempre più essenziale una specifica preparazione professionale distinta da quella del giudice.
Giovanni Falcone, nel 1989, scrisse: «Comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il pubblico ministero, arbitro della controversia il giudice. Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere.
Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’anacronistico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza ed autonomia della magistratura (Fondazione Giovanni e Francesca Falcone, Giovanni Falcone, interventi e proposte (1982 1992), cit., pagina 179)
Ecco la ragione fondante di questa riforma: essa è necessaria ed è la madre di ogni riforma del processo penale, da essa non è più possibile prescindere