Nella conferenza stampa di fine anno – anticipata a prima del Natale probabilmente in vista delle meritate vacanze – il premier Mario Draghi ha di fatto lanciato la sua candidatura per il Quirinale, naturalmente con la misura appropriata alla carica istituzionale di cui si parla. Al Quirinale non ci si candida, si viene chiamati.

Ma chi chiedeva che fosse il premier a fare la prima mossa, a chiarire le sue intenzioni, è stato accontentato: Draghi è disponibile. Non solo: vuole l’incoronazione.

E lo ha fatto replicando al più potente argomento al quale da settimane sta facendo ricorso chi, tra le forze politiche e i più ascoltati commentatori, lo vorrebbe invece incatenato a Palazzo Chigi almeno per un altro anno, come avete letto su Atlantico Quotidiano già il 7 ottobre scorso: Draghi non ha ancora completato il lavoro per il quale era stato chiamato a guidare il governo, campagna vaccinale e riforme del Pnrr. L’emergenza ancora in corso suggerisce di mantenere l’attuale assetto, con l’ex Bce a Palazzo Chigi e Mattarella al Quirinale. In calce, la firma del Pd.

Per questo abbiamo avanzato il sospetto che l’emergenza sia divenuta una carta da giocare nella partita per il Colle: chi vuole tenere Draghi a Palazzo Chigi spinge per un inasprimento delle misure restrittive, per dimostrare che l’emergenza è tutt’altro che alle spalle, mentre a sua volta il premier è portato a tentarle tutte pur di scongiurare un peggioramento della situazione proprio alla vigilia delle prime votazioni. Un combinato disposto che rischia, già questa sera, di presentarci un conto salato in termini di ulteriori inutili e surreali misure restrittive. Per far digerire un tampone ai vaccinati in limitatissime occasioni, rischiamo una ulteriore stretta sui non vaccinati – persino l’obbligo del vaccino per lavorare – così che i primi possano comunque sentirsi “premiati” e “privilegiati”.

Ma dunque cosa ha risposto Draghi ieri?“

“Questo governo è nato chiamato dal presidente della Repubblica. E ha fatto tutto, o comunque molto di quello che era stato chiamato a fare. Fondamentale per l’azione di governo è stato il sostegno delle forze politiche. I miei destini personali non contano assolutamente niente, non ho particolari aspirazioni, sono un nonno al servizio delle istituzioni. La responsabilità della decisione non è in mano a singoli individui ma interamente nelle mani delle forze politiche”.

E ha citato esattamente i punti su cui, sempre secondo chi lo vorrebbe ancora a Chigi, non avrebbe completato il suo lavoro:

“Noi abbiamo conseguito tre grandi risultati: l’Italia è uno dei Paesi al mondo con più vaccinati, ha consegnato in tempo il Pnrr e raggiunto i 51 obiettivi. Abbiamo fatto un lavoro perché l’operato del governo continui, indipendentemente da chi ci sarà“.

Dunque, il senso è: mission accomplished, ho realizzato il mio mandato, sono svincolato da qualsiasi impegno preso con il presidente Mattarella e il governo può andare avanti con chiunque, con questa maggioranza.

Ma come può Draghi avere la meglio e convincere i partiti riluttanti – su tutti il Pd – ad eleggerlo al Quirinale? Come ipotizzava Musso su Atlantico Quotidiano già il 7 ottobre scorso, può “darsi fuoco” politicamente, cioè non rendersi disponibile a continuare con una maggioranza che non lo abbia eletto presidente della Repubblica.

Ed è proprio questa minaccia, sebbene velatamente, serenamente, che il premier ha calato ieri rispondendo con una domanda retorica ad una domanda di una giornalista:

“È immaginabile una maggioranza che si spacchi sull’elezione del presidente della Repubblica e si ricomponga subito dopo?”

Risposta sottintesa: no.

Ecco, dunque, la sfida di Draghi ai partiti. Se la principale preoccupazione delle forze politiche è una fine anticipata della legislatura, il premier gli sta dicendo che il maggior rischio lo correrebbero proprio non eleggendolo al Quirinale. Perché egli continuerebbe solo con una maggioranza coesa, quale tuttavia non sarebbe quella di oggi, se si spaccasse sull’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Se l’attuale maggioranza dovesse non eleggerlo e spaccarsi su un altro candidato, Draghi farebbe le valigie e lascerebbe i partiti davvero sull’orlo di elezioni anticipate.

L’avvertimento è sottile ma da far tremare i polsi. La sfida lanciata alle forze politiche non è banale: o votate compatti me, oppure vi spaccate, il governo cade perché mi dimetto e rischiate il voto anticipato. Parafrasando lo stesso Draghi sui vaccini (“non ti vaccini, ti ammali, muori”): non mi votate, vi spaccate, andate a casa.

Come osserva oggi Augusto Minzolini, giocando un’altra potente carta contro l’elezione di Draghi, non è un caso se nessun premier nella storia della Repubblica è salito direttamente da Palazzo Chigi al Colle, vi sono una serie di valide ragioni.

Un esempio? L’anomalia delle anomalie di questi due anni è servita – e bisogna ringraziare ancora una volta Renzi e Mattarella. Abbiamo un premier che praticamente pone al Parlamento una questione di fiducia non su un decreto o una manovra di bilancio, ma sulla propria elezione al Colle: o me, o il diluvio, ovvero la caduta del governo. Ciascuno può giudicare da sé i livelli di esondazione dal dettato costituzionale che stiamo raggiungendo da due anni a questa parte.

Viene da chiedersi, con Daniele Capezzone, se sia “un nonno al servizio delle istituzioni o le istituzioni al servizio di un nonno? Ci pensino bene i ‘leader’: dal Colle, più facile che dia l’incarico al suo barista di Città della Pieve che non a uno di loro…”.

Sarà difficilissimo per i partiti di maggioranza non spaccarsi su un altro candidato, uomo o donna. Berlusconi, manco a dirlo. Alla fine, l’unico nome che renderebbe spuntata l’arma finale di Draghi sarebbe proprio lui: Mattarella.

Se nelle prime tre votazioni Draghi non dovesse farcela, la maggioranza per non spaccarsi dovrebbe subito giocarsi la carta del presidente uscente. Il che, al Pd, andrebbe benissimo. Ed ecco come si tornerebbe alla casella di partenza: Mattarella al Quirinale, Draghi a Palazzo Chigi.

Chissà se in quel “quasi” tutto fatto, riferito al suo mandato, non rientri la ratifica del Trattato Mes, che il governo intende presentare molto presto alle Camere per una rapida approvazione, come ha reso noto ieri, rispondendo al question time, il ministro dell’economia e delle finanze Daniele Franco (tra l’altro, tra i candidati a succedere a Draghi in caso di elezione al Quirinale). La ratifica del Trattato Mes sarebbe per la Lega ciò che il voto per Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea è stato per il Movimento 5 Stelle: il compimento della normalizzazione europeista e la perdita di milioni di voti.

Federico Punzi – Atlantico