Continua il ‘stai sereno’ di Renzi con un PD sempre più insofferente; il centro-destra unito ma diviso più che mai.
Al Nazareno, la sede del Partito Democratico, sotto la sottile crosta della ‘forza tranquilla’ ostentata dal segretario Nicola Zingaretti, gli umori sono di crescente insofferenza, si taglia con il coltello. «Vedremo martedì», dicono a denti stretti i dirigenti del Partito. Cosa accade, martedì? Alla conferenza dei capigruppo di Montecitorio, il Presidente Graziano Delrio chiederà la rapida calendarizzazione della legge di riforma elettorale.
Ha fretta, il PD: vuole chiudere la partita, almeno per quel che riguarda la Camera dei Deputati, prima della pausa d’agosto. Non sarà facile. Il micro-partito di Matteo Renzi ha già fatto saltare l’iniziale schema. Il leader di Italia Viva aveva assicurato un gioco di squadra; il suo ennesimo ‘stai sereno’. L’inizio della discussione, fissata per il 27 luglio, proprio per l’intervento di Italia Viva è slittato. Con tutta probabilità se ne parlerà a settembre. Come si motiva lo ‘smarcamento’? Provvede lo stesso Renzi: «Da sempre sono per il maggioritario. Perché dovrei cambiare idea adesso? Caso mai stupisce il PD che ha sepolto la vocazione maggioritaria di Romano Prodi e di Walter Veltroni». Così i voti di Italia Viva e quelli dell’opposizione hanno determinato lo slittamento. Niente modello tedesco, vale a dire sistema proporzionale con sbarramento al 5 per cento e abolizione dei collegi uninominali. Non solo. Renzi fa capire ancora una volta che è determinante per la maggioranza, che senza di lui non ci sono i numeri.
Dal suo punto di vista Renzi non a torto: la soglia del 5 per cento per il suo micro-partito è troppo alta. Tutti i sondaggi, unanimi, certificano che riesce, quando va bene, a rosicchiare un misero 3 per cento. Così si spiega la rottura dell’iniziale patto stipulato con il PD: «Qualunque sia la soglia», teorizza ora, «il proporzionale conviene a Italia Viva, ma il maggioritario conviene all’Italia»; poi concede: «Se vogliamo parlare di legge elettorale, sediamoci e discutiamone senza ultimatum né ricatti». Pesa le parole, infine la frenata: «Penso che sarebbe prioritario discutere di posti di lavoro, e non di collegi».
Questo continuo stop and go innervosisce il vertice del PD. In autunno si giocheranno più partite, tutte complicate.
Innanzitutto, le elezioni amministrative. Non è una smargiassata quella del leader leghista Matteo Salvini: «Puglia e Marche si vince: in Veneto e Liguria non si incomincia neppure; in Toscana la partita è aperta». Proprio così: la Campania sembra essere saldamente in mano al centro-sinistra; la Toscana, nonostante tutto, dovrebbe restare nel campo progressista; più che difficile, invece, la riconferma in Puglia e nelle Marche, dove tutti giocano contro tutti: M5S, PD, Italia Viva, ognuno con un proprio candidato; a differenza del centro-destra, che si presenta unito.
Non solo: in autunno, tensioni sociali a parte, inevitabili, sarà confronto (e polemica) su MES e impiego dei miliardi del Recovery Fund.
«Ora che Italia Viva ha rotto il patto, discuteremo in Parlamento con tutti», si lascia andare Emanuele Fiano, relatore della legge elettorale per il PD. Lascia intendere che siano possibili convergenze con la Lega, in vista di un sistema ‘spagnolo’: piccoli collegi, con effetto maggioritario.
Non si capisce, tuttavia, perché la Lega debba fare al PD un simile favore. Vero che in queste ore il partito di Salvini è in difficoltà: per quanto sia un avviso di garanzia (che di per sé significa solo che si è avviata un’indagine), il caso che vede direttamente coinvolto il Presidente della regione Lombardia Attilio Fontana è comunque un colpo al ‘buon governo’ della Lega; spiega l’irritazione di Salvini, il suo accusare la giustizia ‘ad orologeria’.
Come sia, la riforma elettorale inevitabilmente si inserisce all’interno di un più vasto gioco di concessioni e veti, un delicato gioco di Mikado.
Sullo sfondo, le acque agitate all’interno dei due maggiori partiti rappresentati in Parlamento: il Movimento 5 Stelle ormai trova unità solo nel NO al MES. Per il resto, è lacerato su tutto, una quantità di ‘anime’ che si fronteggiano ‘l’un l’altro armato’. Si fa perfino fatica a seguire l’infinita ridda di sgambetti e coltellate alla schiena.
Acque agitate anche all’interno della Lega. Non sono solo i sondaggi a certificare un calo di consensi in favore dei Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Anche i dirigenti più avveduti del Carroccio comprendono che la politica muscolare di Salvini non produce più gli entusiasmi di un tempo. Con molta cautela mesi fa ci ha provato Giancarlo Giorgetti; inutilmente. E’ seguito un periodo non breve di ‘freddo’. Giorgetti infine ha rinunciato, si limita a coltivare la sua rete di amicizie nel lombardo-veneto, osserva l’evolversi degli eventi.
Semmai, sarà compito degli amministratori della Lega, in testa il Presidente della Regione Veneto Luca Zaia, cercare di smussare gli aspetti spigolosi della campagna salviniana. Ma Zaia è persona prudente ed accorta. «Chi glielo fa fare?», confidano i consiglieri. In effetti…
In questo momento tutto questo gioco di camarille interessa ben poco l’elettorato. La questione sul tappeto è: quando arriveranno i 209 miliardi accordati dall’Europa? Come verranno impiegati? Chi e cosa ne beneficerà? Il resto, alla Franco Califano, è noia. Così Salvini continua con la litania di sempre: i miliardi dell’Europa non servono; e comunque verranno stanziati fuori tempo massimo; e comunque si pagheranno caro, sono una fregatura…E via con le nuove puntate della campagna di sempre contro gli immigrati, portatori di ogni male e malefatta.
Il Salvini post-Papeete è come una vite spanata: il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte va, per il momento, con il vento in poppa: governo incerto, ma invidiabile credito personale. Della Meloni s’è detto: il suo partito raggiunge picchi di consenso crescenti. Silvio Berlusconi, per quanto la sua Forza Italia sia sempre più esangue, vistosamente gioca in proprio: si tratti del Recovery Fund che del presidente della Repubblica, riconosciuto quale garante della Costituzione (per inciso: non sfugga che Salvini è stato l’unico leader a non fare, pubblicamente, gli auguri a Sergio Mattarella; non si può chiedere savoir-faire a chi non l’ha mai avuto. Tuttavia…).
Nella prima Repubblica c’era l’arco costituzionale che teneva fuori dalla porta (formalmente) il Movimento Sociale di Giorgio Almirante; oggi c’è un altro ‘arco’, che sempre più (sostanzialmente) spinge fuori Salvini e la sua Lega. Le elezioni di settembre, da questo punto di vista, saranno una cartina al tornasole.
di Valter Vecellio