L’acciaieria di Taranto nasce in un periodo storico in cui l’Italia non aveva paura di fare consistenti investimenti di lungo periodo e non si era ancora rassegnata al “piccolo è bello”.

Grandi progetti richiedono grandi imprese e sia privati sia lo Stato attraverso le sue holding pubbliche IRI, ENI, ENEL avevano il coraggio di osare. Il contesto internazionale era favorevole a questo approccio e l’Italia non sfigurò, mostrando capacità superiori a quelle di Gran Bretagna e Francia e comparabili a quelle della Germania Ovest.

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Il periodo a cui mi riferisco tra anni 1950 e anni 1970 è anche l’unico in cui si registrò un miglioramento del divario Nord-Sud, in parte dovuto agli investimenti fatti nel Sud e in parte all’immigrazione di meridionali nelle fabbriche del Nord che giravano a pieno regime.

Partecipando alla CECA (1951), l’Italia, che era sempre stata una produttrice marginale di acciaio, divenne il secondo produttore europeo, dopo la Germania e Taranto fu magna pars di questo balzo in avanti, diventando in due riprese (una negli anni 1960 e l’altra negli anni 1970) l’acciaieria a ciclo continuo più grande d’Europa.

Molte sono state le critiche alla decisione di raddoppiare la capacità produttiva di Taranto negli anni 1970, quando già il ciclo declinava, soprattutto perché l’impianto era stato messo troppo vicino alla città ed era diventato davvero colossale. Ma allora il tema dell’inquinamento non era ancora all’ordine del giorno. In ogni caso, cosa fatta capo ha e da allora si sarebbe dovuto provvedere a far funzionare l’impianto al meglio, investendo anche sulle tecnologie che lo potevano rendere più pulito. Ricordo che queste tecnologie esistono e vengono utilizzate all’estero, ma in generale hanno un buon risultato in impianti di dimensione più piccola. Anche l’opportunità di “smagrire” progressivamente l’impianto avrebbe dovuto essere presa in considerazione.

Invece che cosa è successo? Una lunga serie di errori che stiamo oggi pagando, non solo nella siderurgia, ma per esempio anche nella chimica. Il primo molto grave, ma del tutto sottovalutato, è il seguente: sindacati, politica, opinione pubblica, tutti si sono accaniti contro la grande impresa, fino al punto di dichiararla inutile per un paese come l’Italia, il cui futuro si vedeva legato alla piccola impresa. Iniziò così il picconamento delle grandi imprese – il caso di Montedison è paradigmatico. Non solo questa furia ci ha lasciato sguarniti di grandi imprese (ricordo che fra le 500 più grandi imprese del mondo l’Italia ne conta sei, mentre Francia e Germania ne hanno una trentina ciascuno), ma ha anche fatto quasi scomparire dall’Italia le capacità manageriali sulla grande dimensione.

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A questo si aggiunse la liquidazione delle imprese pubbliche, a cui riuscirono a sottrarsi in pochi e fra questi pochi non si contò la holding siderurgica dell’IRI Finsider, che fu costretta a vendere i suoi impianti (Italsider, poi ILVA) sul mercato. Quello di Taranto andò nel 1995 in mano al gruppo Riva, che era nato nel bresciano nel 1954 come collettore di rottami, poi gestore di piccoli impianti siderurgici a forno elettrico (una specialità tipicamente italiana). Con acquisizioni successive in Italia, ma anche all’estero, il gruppo si ingrandì, ma sempre con una congerie di impianti di dimensioni non grandi. L’impianto di Taranto era “fuori misura” per le capacità di un’impresa familiare come quella dei Riva, che non seppero/vollero farvi fronte, fino al collasso del 2012. In tutto questo periodo dal 1995 al 2012, nessuno mise mano ai problemi di Taranto, che non facevano che aggravarsi, anche perché gli investimenti in Italia, sia privati sia pubblici, stavano avendo un tracollo.

Gli anni successivi hanno visto una girandola di commissari, visite a Taranto da parte di numerosi politici che invariabilmente promettevano di risolvere i problemi in un minuto, mentre in realtà nulla si muoveva. Finalmente si è trovato un gruppo internazionale come ArcelorMittal, sulle cui capacità manageriali, solidità finanziaria e presenza sul mercato nessuno ha dubbi. Ma cosa si continua a pretendere? Che, appunto, i gravissimi problemi accumulati si vedano risolti in un batter d’occhio.

E’ ora di dire basta alla vendita di fumo, perché a furia di vendere fumo è l’acciaieria di Taranto che andrà in fumo. A certi politici amanti delle decrescita felice questo può anche far piacere. Il problema è che di una decrescita si tratterebbe sicuramente, ma quanto felice sarebbe meglio chiederlo ai lavoratori.

Occorre avere il coraggio di osare, fare una pianificazione operativa e tecnicamente fondata degli investimenti che sono possibili e poi fare due cose: informare l’opinione pubblica delle cose che sono fattibili, dei tempi che esse comportano e dei sacrifici implicati e impegnare la proprietà ad eseguire i piani, monitorando attentamente. Non porta da nessuna parte continuamente colpevolizzare la presente gestione dei disastri pregressi e minacciare di chiudere i forni, producendo un “generale clima di ostilità”, che, come denunciato dai nuovi vertici dell’azienda, rende impossibile la gestione.

Se questo coraggio non lo si ha, allora i cittadini devono sapere che la decrescita sarà davvero infelice: un altro impianto industriale italiano chiuderà, come già hanno fatto tanti altri, la disoccupazione nel Mezzogiorno salirà, da livelli già insopportabili, la spesa pubblica si gonfierà di altri sussidi. C’è qualche politico ancora sano di mente che si renda conto che un paese che dequalifica la propria spesa pubblica al punto da continuare ad ingrossarla di pensioni, sussidi di disoccupazione, sostegni al reddito si infila in un tunnel discendente? E’ sempre stato solo con gli investimenti che le cose sono migliorate. E non solamente investimenti nell’acciaio.

di Vera Negri Zamagni – politicainsieme.com