Si stava meglio quando si stava peggio. D’accordo: è un luogo comune, uno dei tanti che i più anziani sono soliti ripetere nei discorsi da panchina ai giardini pubblici. Ma non possiamo negare che nella saggezza popolare riposa la tradizione e la coscienza di un popolo

Siamo talmente protesi in avanti da rischiare di spostare il nostro baricentro fisico e mentale troppo avanti, compromettendo un equilibrio che mai come oggi sembra essere tanto precario. Talmente presi dal pensare esclusivamente al domani da non curarci minimamente di quanto succede attualmente intorno a noi, oltretutto dimenticando con colpevole superficialità gli insegnamenti del passato.

Siamo un po’ tutti immersi in questa instabile situazione e tutti noi sembriamo incapaci di valutare le cose che ci capitano tra capo e collo con l’ausilio dell’esperienza, dell’insegnamento della storia, delle abilità conseguite lungo il percorso dell’evoluzione. Non si dimentichi che la teoria dell’evoluzione, che appassionò fisiologi, naturalisti, filosofi della prima metà dell’Ottocento, da Malthus a Darwin e Wallace, pose al centro della speculazione lo studio dei meccanismi che portano al cambiamento delle specie viventi ma sempre attraverso un ragionato raffronto tra un passato che ha formato tutte le specie in un processo evolutivo, parzialmente influenzato dalle attività umane, che già viviamo nella quotidianità dell’oggi.

Mi piace, sull’argomento, soffermarmi su un corollario della teoria evolutiva, quella che attribuisce alle diversità riscontrabili nelle tantissime specie viventi un ruolo fondamentale per il nostro futuro. Secondo gli evoluzionisti classici, gli individui che avranno maggiori probabilità di sopravvivere saranno quelli che meglio hanno saputo adattarsi all’ambiente nel quale hanno vissuto, attraverso lo studio di tutto quanto ci circonda con il necessario contributo di più discipline che permettano di analizzare correttamente quei fenomeni.

Oggi impazzano concetti quali “resilienza” e “biodiversità” ed a tali concetti teorici sembrerebbero essere ispirate le massime strategie statuali e sociali, senza tuttavia aver cura di non utilizzare tali termini a sproposito. Si confonde la resilienza, che dovrebbe essere frutto di una ragionata resistenza alle circostanze sfavorevoli con la mera passività e si utilizza il termine “biodiversità” che dovrebbe essere la summa del pensiero evoluzionistico, anche laddove sarebbe meglio parlare di uniformare confusamente ogni forma di diversità in un calderone che sforni incessantemente una brodaglia priva di alcuna identità. Siamo diventati campioni nell’arte di tutto tollerare passivamente in nome di una resilienza priva di alcun elemento volitivo e cantiamo sempre più le lodi di una biodiversità che, in pratica, significa non distinguere affatto una specie dall’altra per meglio tutelarne la preservazione facendone di tutto una massa informe ed incoerente di impossibile sopravvivenza.

Abbiamo plaudito come ebeti alla fittizia e forzosa abolizione dei generi per decreto, come a dire: da oggi non esistono più le differenze che la natura ha creato perché lo abbiamo deciso noi e guai a chi sostenga che non servano gli insetti ad impollinare i fiori perché i fiori sanno perfettamente impollinarsi da soli oppure che le scienze del sottosuolo possono da oggi essere (pericolosamente) confuse con quelle dell’atmosfera. La scienza è ormai questione politica e in un mondo ove ad una ragazzina ignorante e spocchiosa viene concesso di dettare le linee programmatiche ai potenti della Terra è ormai tutto possibile, lo sappiamo, ma una bella serie di perplessità si affaccia alla ribalta di tanta spettacolarizzazione della scienza.

Più che le scemenze di Greta sarebbe il caso di ricordare l’insegnamento di Carlo Rubbia, il quale, alla cerimonia di ricevimento del Premio Nobel per la Fisica, nel 1984, si rivolse ai giovani, invitandoli a non aver paura del futuro perché il progresso tecnologico e la scienza avrebbero certamente trovato soluzioni ai grandi mali di quel momento. L’atteggiamento positivo dello scienziato è ormai stato surclassato da un diffuso catastrofismo di maniera, in un insensata corsa a predire tutto il peggio per gli ancora viventi zombies soltanto in una manciata di anni ed ormai chi la spara più grossa e più venefica assume d’ufficio il privilegio di potersi imporre a chiunque, in quanto portatore del Verbo.

Le incongruenze più eclatanti dei nuovi scienziati televisivi e dei sobillatori di masse sono molteplici quanto difficilmente contestabili loro (si passerebbe da retrogradi, da sudici inquinatori per principio, persino da no-vax). Ma se ancora fossimo in grado di soffermarci un attimo nella ritenuta salvifica corsa verso un futuro preconfezionato, dovremmo pur considerare che persino Galileo Galilei, di gran lunga il più filosofo tra i grandi scienziati del passato, mai giunse a tanta confusione tra scienza, politica, etica, teoria dello Stato. Proprio in onore al principio della biodiversità, per la quale ogni diversità è necessaria all’evoluzione, non si dovrebbe permettere di confondere discipline troppo diverse tra loro, scambiandosene bellamente le loro diversissime metodiche, in nome di un cammino scientifico unico, che, guarda caso, il governante di turno conosce alla perfezione, da compiere rigorosamente tutti intruppati dietro alla bandiera di turno, altrettanto rigorosamente creata ad hoc.

A volte sembra di tornare ai tempi di Kruscev che indicava nella gloriosa conquista dello spazio (costata decine di morti tra i cosmonauti russi, costretti ad esperimenti discutibilissimi di cui si sapeva perfettamente l’esito quasi certamente letale) come la rivincita mondiale del proletariato. Lungi da me dare consigli, ma io starei attento a tanta facile adesione ai grandi temi ecologisti, lo stesso a perorare con totale superficialità la teoria della “decrescita felice” o, ancora, mirare unicamente alla decarbonizzazione accelerata ed alla corsa verso l’elettrico, Potremmo incespicare su ostacoli più o meno nascosti, ma non certamente trascurabili.

A rendere tutto più preoccupante, come da anni scrivo su queste pagine, è la tendenza a buttarsi sul “nuovo” prima ancora di aver ragionevolmente verificato, almeno con metodo empirico, che il “vecchio” non debba poi essere rispolverato e rivalutato in fretta e furia pochi anni dopo. È già successo con la ingiustamente pensionata radio, con l’utilizzo generalizzato di imballaggi in plastica, con l’abbandono prematuro dell’agricoltura in campo a favore della produzione di beni più elaborati. Ho iniziato parlando di luoghi comuni e quindi non mi esimerò dallo sciorinarne uno dei più retrivi: chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quel che lascia e non sa quel che trova.

Roberto Ezio Pozzo – Atlantico Quotidiano