Ora che gli Stati Uniti sono usciti dal Paese, ora che l’Afghanistan è tornato essere quello di 20 anni fa, ora che la missione è fallita, quale sarà il ruolo degli Stati Uniti in quel Paese? Che ne sarà dei gruppi terroristici contro i quali gli USA hanno lanciato la ‘global war on terrorism’?
«Sono qui per annunciare il completamento del nostro ritiro dall’Afghanistan e la fine della missione militare per evacuare cittadini americani, cittadini di Paesi terzi e afgani vulnerabili. L’ultimo C-17 è decollato dall’aeroporto internazionale di Hamid Karzai il 30 agosto, questo pomeriggio, alle 15:29 ora della costa orientale», parola del generale Frank McKenzie, comandante del comando centrale degli Stati Uniti. Con qualche ora di anticipo sulla deadline del 31 agosto, gli Stati Uniti sono usciti dall’Afghanistan, ponendo fine così alla guerra più lunga d’America. 20 anni di guerra e il Paese è tornato esattamente al punto di partenza. E’ il fallimento dell’Occidente, gli Stati Uniti possono essere considerati, alla fine, solo il frontman.
Dal 15 agosto, giorno della presa di Kabul da parte dei talebani, la fine fallimentare della missione USA sta monopolizzando le menti dell’Occidente, e non solo. Tutto e il contrario di tutto si è detto sulla missione, sul ridimensionamento del peso degli Stati Uniti sullo scenario mondiale e la relativa fine del ‘momento unipolare’ statunitense, sul punto di svolta che il fallimento rappresenta per l’ordine globale in salsa occidentale, e sull’Amministrazione che ha gestito questa fine.
Uno dei temi di queste infinite discussioni è quello che è stato considerato ‘il più grande fallimento dell’intelligence americana’, che per gli americani è mettere in discussione uno dei capisaldi della potenza US. Avendo come lente di lettura l’intelligence, agevolmente si passa a considerare due temi per nulla aulici, ma certamente di immediato, concreto interesse. E ora? Ora quale sarà il ruolo degli Stati Uniti in Afghanistan? Cosa sarà ora dei gruppi terroristici che hanno attanagliato l’Occidente e contro i quali proprio gli USA avevano lanciato la ‘global war on terrorism’?
Nelle scorse ore, Zachary B. Wolf, per ‘CNN‘, ha intervistato Tim Weiner, giornalista e scrittore, grande conoscitore dell’intelligence USA, vincitore del Premio Pulitzer e del National Book Award, autore di ‘Legacy of Ashes: The History of the CIA‘.
La schiettezza di Weiner spazza fiumi di discorsi vacui che in questi giorni hanno occupato il dibattito pubblico sull’intelligence, e non solo guarda a come gli Stati Uniti sono tornati al punto di partenza in Afghanistan, ma -ancora più importante- accende un faro su quello che da oggi in poi ci si può attendere dall’America in quel Paese e nell’area nel complesso.
Qui di seguito, la traduzione integrale dell’intervista.
Gli Stati Uniti hanno chiaramente frainteso quanto velocemente e completamente il governo afghano sarebbe caduto. Credi che dovremmo vederlo come un fallimento dell’intelligence?
L’ intelligence non è una sfera di cristallo. Può descrivere i modelli del passato e lo stato attuale del gioco, ma raramente può predire il futuro. Quindi non puoi imputare questo disastro alla CIA. È l’opera di quattro presidenti e una sfilza di comandanti militari che li hanno fuorviati. L’Afghanistan era destinato a cadere quando l’ex Presidente Donald Trump e il suo Segretario di Stato Mike Pompeo si sono arresi ai talebani, nel marzo 2020. Negli ultimi 18 mesi, non si discuteva se l’America avrebbe perso, ma quando. L’imprevista abdicazione del Presidente corrotto dell’Afghanistan, il 15 agosto -secondo quanto riferito, con un elicottero pieno di soldi- ha risposto a questa domanda. Sarebbe stato questione di ore.
Ho letto qualcosa di interessante in una intervista al generale in pensione (ed ex direttore della CIA) David Petraeus, a cui è stato chiesto se si trattasse di un fallimento dell’intelligence. Ha detto: “… c’è una pratica di vecchia data delle amministrazioni di Washington che riformulano una politica fallita come un fallimento dell’intelligence…” e ha suggerito che non è questo il caso. Cosa ne pensi?
Tre fallimenti hanno reso inevitabile il crollo del governo di Kabul appoggiato dagli americani.
Uno è l’ignoranza volontaria degli ufficiali dell’esercito e dell’intelligence americani: l’incapacità di comprendere la storia e la cultura dell’Afghanistan. Chiunque abbia letto anche solo un libro sul Paese sapeva -o avrebbe dovuto sapere- che nessun esercito di occupazione ha mai tenuto sotto controllo l’Afghanistan. Alessandro Magno, Gengis Khan, Tamurlane, gli inglesi e i sovietici ci hanno provato e hanno fallito; la sconfitta dell’Armata Rossa nel 1989 ha accelerato il crollo dell’Unione Sovietica. Non per niente lo chiamano il cimitero degli imperi.
Il secondo fallimento è stata la strategia di controinsurrezione promossa da Petraeus e altri. Ufficiali dell’esercito e dei servizi segreti americani hanno ucciso molte migliaia di civili afgani nel loro inseguimento della vittoria. Questo non conquista i cuori e le menti della popolazione.
Il terzo è stato l’esternalizzazione deliberata della ‘costruzione della Nazione’ ad appaltatori militari. La guerra era redditizia per loro. Per mantenere il flusso di denaro, tendevano a ritrarre i loro fallimenti come successi. Quella pratica perniciosa ha infettato i rapporti degli ufficiali militari e dell’intelligence alla Casa Bianca e al Congresso. C’era sempre luce alla fine del tunnel, finché all’improvviso c’è stata l’oscurità.
L’esercito americano sta lasciando l’Afghanistan. Anche la CIA ridurrà la sua presenza adesso?
La scorsa settimana, nel caos dell’evacuazione all’aeroporto di Kabul, la CIA ha fatto esplodere la Base Eagle, il suo ultimo avamposto in Afghanistan. Con quell’esplosione, vent’anni di operazioni di intelligence e antiterrorismo sono andati in fumo. Senza una base operativa o un’ambasciata, le spie americane avranno difficoltà a lavorare in Afghanistan. Per un decennio, dal 1979 al 1989, la CIA ha contrabbandato miliardi di dollari di armi e materiale bellico ai guerriglieri afgani che combattevano l’occupazione sovietica del loro Paese. In quegli anni, gli ufficiali della CIA mettevano molto raramente piede in Afghanistan. Quando l’Armata Rossa se ne andò, anche l’America se ne andò. La sconfitta dei sovietici, allora una delle due superpotenze mondiali, ha reso l’Afghanistan una calamita per i jihadisti di tutto il mondo negli anni ’90. Ho riferito di questa minacciadurante un lungo viaggio in Afghanistan nel 1994. La violenta lotta di potere tra i guerriglieri afgani che abbiamo sostenuto, che hanno distrutto gran parte di Kabul con le armi fornite loro dall’America, ha dato origine ai talebani, nel 1996. Questi, a loro volta, hanno dato rifugio e sostegno ad al Qaeda e a Osama bin Laden.
Siamo tornati a dove eravamo 25 anni fa. I guerriglieri afgani hanno sconfitto una superpotenza e hanno trasformato il loro Paese in un invitante ostello per una nuova generazione di aspiranti terroristi. E la CIA avrà pochissime spie americane sul campo per valutare quella minaccia, forse nessuna per il prossimo futuro.
Ci sono rapporti, come questo, secondo cui la CIA ha spostato la sua attenzione dall’antiterrorismo e dalle operazioni paramilitari allo spionaggio e alla raccolta di informazioni su Paesi come la Cina e la Russia. Come potrebbe la situazione in Afghanistan cambiare quei piani?
La generazione dell’11 settembre di ufficiali e analisti antiterrorismo della CIA è al lavoro da 20 anni. Sono stanchi e, sospetto, scoraggiati dalla sconfitta americana in Afghanistan. Come nelle forze armate, i 20 anni e più tendono ad essere la regola. La CIA dovrà formare una nuova generazione per sostituirli. E ci vorranno anni.
Il controspionaggio -prevenire operazioni di spionaggio e sabotaggio politico contro l’America da parte di cinesi e russi- è una sfida ancora più grande. Le spie di Putin continuano a colpire il corpo politico americano con disinformazione. La Cina sta pulendo l’orologio americano nel cyberspazio. I cinesi hanno raccolto i dati personali di quasi tutti i cittadini americani, con un focus particolare su spie, soldati e diplomatici. Questo rappresenta una minaccia all’intelligence che abbiamo appena cominciato a capire.
C’è una lunga lista di eventi nei quali la CIA si è persa o non ha preparato adeguatamente il paese. Metterei la caduta della cortina di ferro, la minaccia di al Qaeda prima dell’11 settembre, la minaccia delle armi di distruzione di massa in Iraq dopo l’11 settembre, l’ascesa dell’ISIS quando gli Stati Uniti si sono ritirati dall’Iraq, l’ingerenza nelle elezioni straniere. L’elenco potrebbe continuare. Diresti che ci sono un gran numero di storie di successo di intelligence sconosciute e ancora classificate che superano questi fallimenti?
Certamente, alcuni successi rimarranno segreti negli anni a venire. Che superino i fallimenti che descrivi è dubbio. L’intelligence è uno sforzo umano e quindi incline al fallimento. E l’America è un nuovo arrivato nel campo, se ci pensi. La CIA è in attività da 75 anni. I russi la praticano da 300 anni, dai tempi di Pietro il Grande, e i cinesi hanno affinato la pratica da quando Sun Tzu scrisse ‘L’arte della guerra‘ 26 secoli fa.
Anche quando l’intelligence ha successo, ad esempio nel prevedere un attacco, ciò non significa che presidenti e comandanti militari presteranno attenzione. La preconoscienza non sempre previene il disastro. Il Presidente George W. Bush ha sostanzialmente ignorato l’avvertimento della CIA secondo cui bin Laden era determinato a colpire l’America 20 anni fa. Sapere che l’ISIS-K avrebbe attaccato a Kabul negli ultimi giorni -e gli avvertimenti erano sorprendentemente accurati- non ha impedito loro di uccidere americani e afgani.
L’intelligence è difficile, sporco, spesso pericoloso. Quando ci riesce, può salvare vite. Ma quando fallisce, le persone muoiono.
Le affermazioni di Tim Weiner trovano un quasi naturale seguito nell’analisi che fa, per openDemocracy, Paul Rogers, professore emerito di studi sulla pace presso l’Università di Bradford,consulente per la sicurezza globale presso l’Oxford Research Group (ORG), e International Security Editor di openDemocracy, cercando di rispondere ai due interrogativi che a questo punto sono cruciali, e non solo per gli Stati Uniti. Quale sarà la politica statunitense ora? E in che modo il cambiamento di potere in Afghanistan influisce su organizzazioni come Al Qaeda e ISIS?
E’ chiaro che l’America «non si impegnerà in una guerra terrestre mentre Joe Biden è alla Casa Bianca, ma il Paese si adopererà per contenere qualsiasi espansione di al Qaeda, ISIS o altri radicali islamici in Afghanistan che potrebbe essere vista come una minaccia per gli interessi degli Stati Uniti». Rogers definisce questa, in una intervista a ‘El Confidencial‘, come una ‘guerra remota‘. Gli Stati Uniti cercheranno «di mantenere il controllo con vari mezzi, incluso l’uso di forze speciali e milizie per procura, ma gran parte dell’enfasi sarà sull’uso di droni armati e velivoli ad ala fissa a lungo raggio come i bombardieri B-52», afferma Rogers. E però, nonostante la potenza aerea a disposizione degli USA, ci sono pochi elementi che possono far ritenere che droni e potenti aerei possano fare molto «per contenere Al Qaeda e ISIS se i talebani permetteranno loro di crescere e prosperare».
E c’è chi, come James M. Dorsey, giornalista e ricercatore senior presso il Middle East Institute della National University di Singapore, ritiene che la guerra dei talebani con lo Stato Islamico, non solo potrebbe minacciare gli sforzi per stabilizzare il Paese, ma potrebbe addirittura minare la tenuta dei talebani. Senza considerare la pressione che potrebbe derivare dall’ambizione del Tehrik-i-Taliban Pakistan (TTP) -i talebani pakistani- di fondere aree del Pakistan popolate da pashtun con l’Afghanistan.
«Negli ultimi cinque anni, i gruppi legati ad al Qaeda e all’ISIS si sono espansi nell’Africa settentrionale e orientale, con legami con gruppi locali indipendenti in luoghi lontani dall’Africa come le Filippine e l’Indonesia», prosegue Rogers. Ora, dopo la vittoria dei talebani sull’Occidente«questi gruppi riceveranno un grande impulso, e un rinnovato interesse da parte delle persone ad unirsi alla loro causa, poiché riterranno che la guerra al terrorismo debba ancora essere vinta. I paralleli con gli anni successivi all’11 settembre sono spaventosi».
«I movimenti paramilitari estremisti islamici avranno poco o nessun collegamento con ciò che sta accadendo in Afghanistan, ma l’impatto simbolico della sconfitta dell’Occidente e l’istituzione di un califfato saranno sufficienti». Il che fa dire a Rogers: «Ciò ha implicazioni non solo per il Nord America e l’Europa occidentale, ma per il mondo intero, rendendo la vittoria dei talebani forse lo sviluppo politico più importante del 2021. Siamo entrati nel terzo decennio di una guerra di 30 anni».
Gabriella Peretto – L’Indro