E’ morta la scrittrice Michela Murgia. Sottolineo scrittrice perché dal punto di vista umano non l’ho mai conosciuta: non sono un amico e neppure, come tanti credono, un nemico. Non sono mai stato d’accordo con le sue idee ma di certo le aveva. E già questo non è poco. Non ho mai apprezzato la sua scrittura – una Grazia Deledda senza grazia; non ho mai amato i suoi interventi da opinionista (editorialista, anche no) o da interventista televisiva pronta a trasformare qualsiasi cosa toccasse in oro colato e calato in un vademecum per radical flop.
Quel “prendere posizione” di Murgia
Non ho mai amato il suo prendere posizione senza in realtà mia prenderla: senza calcolare prima i postumi (im)mediati. Non ho mai apprezzato il suo comunicare, ma nella “società dello spettacolo” è stata una (im)peccABILE comunicatrice. I suoi romanzi hanno fatto scuola per chi deve andare a scuola. “Accabadora” oggi non è più una voce del dizionario ma il suo romanzo. Se cercate sulla più semplicistica Wikipedia prima viene citato il suo romanzo, poi il termine sardo femina accabadora, femina agabbadòra o, più comunemente agabbadora che denota “la figura, storicamente non comprovata, di una donna che si incaricava di portare la morte a persone di qualunque età, nel caso di malattia”.
La morte rende tutti immortali
Inutile sottolineare che Wikipedia Italia è gestito per lo più dai “compagni” della Murgia. Se da una parte la morte ci rende tutti uguali, dall’altra i social network non negano un buon ricordo a nessuno: per esorcizzare il dolore lo si rende lo pubblico, condividendolo. Se un capolavoro dell’arte ottiene una attenzione limitata, la condivisione della morte di qualcuno rende tutti immortali, almeno sino al prossimo morto. È come cambiar pagina: ma nell’attimo istantaneo di un momento, di un post, di un tweet, di una storia di Instagram che non ha memoria.
Oggi non rispettiamo più la morte – le facciamo torto ogni giorno rimuovendola, non pensandoci mai – eppure di fronte alla morte di qualcuno siamo tutti più buoni: non è educazione (dall’etimo latino “ex-ducere”: “portare fuori quel che si pensa”), ma una netiquette che ci rende tutti estensori di coccodrilli (per farci dimenticare che siamo tutti degli squali).
Perché ringraziare Michela Murgia
Se bisogna ringraziare Michela Murgia è anche per questo: per aver condiviso pubblicamente la propria malattia, il proprio morire: il proprio dolore. È stata una lezione impartita a tutti noi, a tutti quelli che non hanno mai letto i suoi libri ma oggi una citazione non si nega a nessuno. Ora la amano tutti. Io no. Ma le auguro di avere un audience anche in Paradiso dove adesso sarà senz’altro: perché nel bene o nel male Michela Murgia ci ha regalato se stessa. E oggi non è poco.
Gian Paolo Serino – Atlantico