Ricorre oggi, sempre tra le medesime polemiche, l’anniversario della Liberazione. Il 25 aprile del 1945, dopo settantatré anni, è ancora troppo spesso legato a visioni retoriche della Resistenza, a ricostruzioni oleografiche e ad una strumentalizzazione politica che, dopo tanti anni, denota una persistente arretratezza culturale che contrassegna ancora alcuni settori politici della sinistra italiana.
Allora, ancora una volta, è utile ricordare che la guerra di liberazione fu caratterizzata da una duplice Resistenza, perché, in generale, c’era la volontà comune di sconfiggere il nazismo, il totalitarismo ed il razzismo, ma poi l’orientamento ideale e politico si divideva profondamente.
C’era chi – cattolici, liberali, monarchici, azionisti e socialisti riformisti come Saragat – si sentiva vicino all’esercito anglo-americano che stava liberando l’Italia risalendo verso Nord e chi – comunisti e socialisti massimalisti – invece, era strettamente legato all’Armata Rossa e all’esercito del Maresciallo Tito, incombente sull’Italia. Insomma, una parte dei partigiani, aveva come riferimento le democrazie liberaldemocratiche, mentre un’altra parte voleva la dittatura del proletariato. E questi due orientamenti, già nel pieno della lotta contro il nazifascismo, si scontrarono, anche con armi alla mano (si pensi ai fatti tragici di Porzus dove i partigiani cattolici furono massacrati da quelli comunisti), perché gli alleati di quel momento sarebbero divenuti successivamente i nemici da sconfiggere.
Per le formazioni partigiane comuniste la lotta non sarebbe dovuta finire con la liberazione dal nazifascismo, ma proseguire fino all’instaurazione di una Repubblica Popolare di modello sovietico, in sostanza per sostituire un totalitarismo con un altro totalitarismo. Si ripercuoteva all’interno della Resistenza italiana la divisione esistente nell’alleanza antinazista costituita da una parte dagli Usa, dall’Inghilterra e dalla Francia, e dall’altra parte dall’Urss. Il gruppo dirigente del Pci al Nord, con in testa Pietro Secchia e Luigi Longo, fu risoluto nel cercare di forzare la lotta armata anche dopo il 25 aprile 1945 (in Lombardia, Piemonte, Liguria, Veneto e soprattutto in Emilia Romagna) provocando numerosi efferati delitti con l’eliminazione di tutti i potenziali nemici del comunismo per aprire la strada rivoluzionaria ed instaurare la dittatura del proletariato. E questo filone politico, non dimentichiamolo mai, fu anche il brodo di coltura delle Brigate Rosse, come testimonia la vicenda di Franceschini e Gallinari.
E se oggi, in occasione del 25 aprile, esistono ancora polemiche che hanno radici nel filone comunista della Resistenza, vuol dire che s’aggira ancora qualche frammento inquietante di quel passato che va decisamente respinto e che occorre lavorare per rendere sempre più salde le nostre istituzioni democratiche.
di Pier Ernesto Irmici – L’Opinione delle Libertà