La piccola ma reale bellezza della nostra Carta: padri costituenti consapevoli delle condizioni del Paese e dell’urgenza di ritornare nel consesso internazionale
Mai come in questo 2024 la celebrazione del 2 giugno è diventata un prolungamento della commemorazione del 25 aprile in un nesso di causalità che va oltre la semplice cronaca dei due eventi. Ormai svolta in tono minore, per ovvie ragioni di costi, la tradizionale parata militare, essa sta diventando un inutile orpello, sostituita con iniziative – a vario titolo svolte – di celebrazione della Carta costituzionale.
Poco serve ricordare che nel 2012 il Parlamento avesse stabilito che il 17 marzo sarebbe diventata la “Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera”. Mai festa fu meno sentita. Maligno, ma non distante dalla realtà, rilevare che se una celebrazione, civile o religiosa che sia, non diventa giorno festivo non ha speranza di essere ricordata, se non, distrattamente, sui banchi di scuola o nelle parrocchie.
Costituzione svilita
Collegare, però, la data del 2 giugno che ricorda anche l’elezione dell’Assemblea costituente, con la Carta non è così forzato, come ha testimoniato lo stesso presidente Sergio Mattarella che nel suo messaggio ufficiale ha detto che “celebrare i 68 anni della Repubblica richiama i valori […] di una Costituzione lungimirante e saggia”. Molto spesso, però, questa difesa non solo diventa strumento di, impropria ma comprensibile, lotta politica, ma – soprattutto – un modo di svilire la Carta stessa, con magniloquenze ed imprecisioni che non fanno onore alla nostra legge fondamentale e favoriscono un analfabetismo di ritorno.
Tanti anni fa don Andrea Gallo di Genova – il famoso “prete degli ultimi” – disse che per lui esistevano 5 vangeli. Ai 4 canonici, aggiungeva la “Costituzione”, dando a quest’ultima una valenza trascendentale. In epoca più recente Roberto Benigni, a più riprese, la descrisse come un testo letterario, spesso definendo alcuni articoli “poetici”. Durante il Festival di Sanremo 2023, di fronte ad un imbarazzato Mattarella, disse: “La Costituzione è legatissima con l’arte, la Costituzione è un’opera d’arte e ogni parola sprigiona una forza evocativa e rivoluzionaria”. Ed ancora: “È un sogno fabbricato da uomini svegli, ed è una cosa che può accadere una volta nella storia di un popolo”.
I chierici della Carta
Perché tutto ciò? Perché si è ridotta la Costituzione ad un esercizio letterario? La risposta non può non essere amara. Ogni volta che, a partire dagli anni Ottanta, si è parlato di riforma costituzionale, ecco che si sono alzate voci a difesa dell’intangibilità della Carta, al di là della volontà dei costituenti stessi. Soprattutto da quando si sono affacciate maggioranze parlamentari di centrodestra, la difesa della Carta è diventato un mantra, un manifesto politico, in assenza di una proposta e di una visione dello Stato alternativa a quella di coloro che venivano visti – dalle “vestali” della Costituzione – come dei parvenu della politica.
Per ottenere questo si doveva rafforzare il mito dei padri costituenti, rappresentati – non come degli artigiani, nel senso alto del termine – ma come 556 apostoli illuminati da un laico “spirito santo”. In poche parole la sacralità della Costituzione non si è temprata attraverso una laica religiosità “adulta”, quindi critica, ma tramite la venerazione di “santini”.
La recente pubblicistica è ricca di testi non tecnici, un po’ tutti uguali agli altri, che esaltano la Carta, obliando – chiaramente in modo voluto – fatti, cronologie che avrebbero la colpa di rendere la nostra Carta figlia di contingenze storiche, di per sé caduche. Gli autori si spendono in numerose presentazioni, offrendo di sé, non l’immagine di intellettuali che offrono al mercato il proprio prodotto, ma come chierici di questo culto laico, spinti da anelito messianico. Come dimostra, però, il fenomeno americano dei telepredicatori, unire la fede a Mammona è un esercizio estremamente proficuo, fuorché per i fedeli.
L’operazione intellettuale tesa a dimostrare che la nostra Costituzione è – senza fallo – la carta “più bella del mondo” è la dimostrazione di come si può costruire un mito. È stato, spesso, diffuso il messaggio che la Costituzione italiana sia nata “dal nulla”, se non dalla esperienza resistenziale, e che abbia influenzato carte emanate successivamente.
La Carta Onu
In un lirismo fuori luogo, Luca Sommi, pubblicizzando la sua ultima fatica letteraria, ha sostenuto che l’art 3 della Carta (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli […], che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana […]”) abbia una tale originalità da aver influito sulla redazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (dicembre 1948).
In questa testarda propaganda pare sfuggire al giornalista emiliano che tutti questi elementi erano contenuti nella Carta delle Nazioni Unite (24 ottobre 1945), quella influenzata da giuristi americani, tanto da iniziare con “Noi, popoli delle Nazioni Unite”. In questo documento ecco riaffermare – nel preambolo – “la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole”.
In egual modo l’art. 1 comma 3 parla della necessità di promuovere e incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti “senza distinzioni di razza, di sesso, di lingua o di religione”, impegnando (art. 2) gli Stati membri ad “adempiere in buona fede gli obblighi da loro assunti in conformità al presente Statuto”. Come non bastasse l’art. 4 impone che eventuali nuovi Stati membri – l’Italia entrò nelle Nazioni Unite nel 1955 – accettassero gli obblighi della Carta e che, “a giudizio dell’Organizzazione”, fossero capaci di adempiere tali obblighi e disposti a farlo.
Il nesso di causalità è espresso e non riguarda la Costituzione che ha avuto influenza sulla Dichiarazione dei diritti dell’Uomo, ma è stata la Carta del 1945 che ha condizionato i padri costituenti. Se la Costituzione non avesse riconosciuto, quello che riconobbe con l’art. 3), l’Italia non sarebbe entrata nell’Onu.
L’articolo 11
Un ulteriore secondo esempio – purtroppo molto di attualità – l’art. 11 (“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”). Chi non ricorda l’enfasi posta da Benigni, in una sua lettura dei “principi fondamentali”, su questo articolo? “Una Poesia”, dice l’attore.
La realtà, però, è molto più prosaica. Mario Losano (“Le tre costituzioni pacifiste”, 2020) ricorda come il primo comma del nostro art. 11 ricordi molto il primo comma l’art. 9 della Costituzione giapponese del 1947 (“Aspirando fermamente a una pace internazionale basata sulla giustizia e sull’ordine, è fatta rinuncia per sempre dal popolo giapponese alla guerra, quale diritto sovrano della nazione, e alla minaccia o all’uso della forza, quale mezzo per risolvere le controversie con altre nazioni”).
La similitudine non è casuale. Come noto la bozza di questa Carta venne solo approvata dalle Camere giapponesi. Fu il Government Section (GS) del Supreme Command of Allied Powers a diventare l’istanza costituente del Giappone, sotto la guida di Courtney Whitney e di Charles Kades. Se si esclude – cosa non da poco – che gli americani imposero ai giapponesi la rinuncia alle forze armate e alla difesa, presenti, invece, nel nostro ordinamento agli artt. 52 e 78 della nostra carta, le due costituzioni parlano linguaggi simili.
La nostra Carta usa il verbo “abiurare”, il testo della Costituzione giapponese, scritto in inglese, usa il verbo refuse, ma è noto che verbo sinonimo è reject, che è traducibile anche come “abiurare”. Il fatto è che le potenze vincitrici imposero agli sconfitti un passo indietro verso l’uso dello strumento bellico. Con i giapponesi – colpevoli di Pearl Harbour – furono molto duri, con l’Italia – in fondo co-belligerante dal 1943 – molto meno.
Copia-incolla dalla Carta francese
A discredito di tutti i chierici sopra richiamati, l’ossatura della nostra Costituzione, nel bene e nel male, è presa da quella della Costituzione della Quarta Repubblica francese (13 ottobre 1946), quella “pensionata” da De Gaulle nel 1958. Basta una scorsa agli articoli riguardanti il Parlamento, il presidente della Repubblica e del Consiglio dei ministri, nonché quelli relativi ai diritti sociali ed economici per vedere come molte parti della nostra Carta furono un accurato “copia-incolla”.
Il realismo della Carta
La vera grandezza dei nostri “padri costituenti” non fu quello di aver scritto la Carta in una sorta di solipsistica trance, ma di essere consapevoli delle condizioni del Paese ed aver percepito l’urgenza di ritornare nel consesso internazionale. L’Italia era stata occupata militarmente dagli alleati fino al febbraio 1947. La sua posizione geopolitica era stata decisa altrove e non era modificabile, come insegnarono i fatti di Grecia e vari partiti politici dovettero inghiottire il rospo.
Il pericolo di una guerra civile, con possibili conseguenze con le forze di occupazione non era completamente sopito, come ricordano i fatti succeduti all’attentato a Togliatti del 14 luglio 1948. Forte era la necessità di aiuti economici importanti, questione che fu alla base della visita di De Gasperi a Washington del 1947.
No, non era il momento dei sogni, ma di un lucido realismo! I costituenti accettarono le pressioni più o meno esplicite, affinché alcuni principi generali fossero presenti nella carta. Ben venga la “scopiazzatura” del sistema francese di allora. Era un modello che esisteva e, in fondo, la Francia era un Paese sconfitto, ma che era riuscito a sedersi al tavolo della pace, dalla parte dei vincitori. Questa è la piccola, ma reale bellezza della nostra Carta; non quella inventata a tavolino dai mille mestatori della nostra storia. Viva la Repubblica, viva la Costituzione!
Daniele Biello – Atlantico