Il successo della diplomazia della Cina, il suo impatto sullo standing internazionale di Pechino e le prospettive che esso apre alla Repubblica popolare in una regione che ha tradizionalmente guardato agli USA come alla propria potenza di riferimento sono tutti motivi di preoccupazione per Washington
L’annuncio del ristabilimento delle relazioni diplomatiche fra Iran e Arabia Saudita, interrotte dal 2016, rappresenta un’evoluzione importante sulla scena mediorientale. Dopo la rivoluzione del 1979, i rapporti fra Teheran e Riyadh (mai davvero facili nemmeno negli anni della monarchia Pahlavi) hanno sperimentato un netto peggioramento, caratterizzato da diverse fasi di tensione acuta. La conseguenza è stata – dall’inizio degli anni Ottanta – il progressivo aggravarsi delle violenze interconfessionali in buona parte della regione e il crescente coinvolgimento dei due Paesi nei vari conflitti che l’hanno punteggiata. La mediazione cinese che ha portato a questo risultato è un altro dato di interesse. Pechino ha orientato da tempo i suoi interessi verso il Golfo, non solo al fine di soddisfare una crescente fame di energia. L’impegno a favore della normalizzazione dei rapporti fra i due arcirivali segna, comunque, un salto di qualità importante; un salto di qualità che conferma, inoltre, quanto la Repubblica popolare –tradizionalmente considerata ‘amica’ di Teheran, cui è legata da una solida cooperazione in campo militare –negli ultimi tempi si sia avvicinata anche alle monarchie della sponda meridionale.
Un segnale chiaro di questo avvicinamento era giunto già lo scorso dicembre, con la visita del Presidente Xi Jinping in Arabia Saudita; una visita che gli osservatori avevano letto come una sorta di risposta a quella del Presidente Biden del luglio precedente, ma che si inseriva anche nel quadro di una strategia di attenzione verso Riyadh avviata già alla fine degli anni Novanta. La vista (fortemente criticata a Washington) aveva avuto chiare valenze politiche, evidenziate dalla partecipazione del leader cinese al vertice del Gulf Co-operation Council in programma negli stessi giorni proprio a Riyadh. La visita aveva condotto, inoltre, a speculazioni sulla solidità del legame fra Pechino e Teheran, legame che – al dì là delle periodiche dichiarazioni – non sé è mai davvero concretizzato nella auspicata partnership strategica. Teheran non aveva nascosto l’irritazione, in particolare per l’appoggio espresso da Pechino alla posizione degli Emirati nella questione della sovranità su Abu Musa e le isole Tunb. In quest’ottica, la visita del presidente iraniano Raisi a Pechino, a metà febbraio, era suonata quasi una ‘riparazione’ per lo ‘sgarbo’ di dicembre e un tentativo di ridare slancio a una relazione ‘dal fiato corto’.
Gli eventi degli ultimi giorni sparigliano di nuovo le carte, rafforzando la posizione cinese su entrambe le sponde del Golfo, rilanciando l’immagine di Pechino quale ‘onesto sensale’ e aprendo nuove finestre di opportunità per il suo coinvolgimento nelle dinamiche regionali. Fra l’altro, amargine della firma dell’accordo sul ristabilimento delle relazioni diplomatiche, rappresentanti sauditi e iraniani hanno espresso la volontà di lavorare, nei prossimi mesi, al rinnovo degli accordi esistenti fra i due Paesi nel campo della sicurezza, del commercio e della collaborazione tecnologica, tutti ambiti nei quali la Cina può avere voce in capitolo e che potrebbero beneficiare dell’impulso che essa è in grado di dare. Anche se gli incentivi alla collaborazione sono forti, si tratterà, tuttavia, di un processo dai tempi lunghi e che rimane esposto al rischio di passi indietro. I punti di contrasto fra Teheran e Riyadh rimangono, infatti, molti e riguardano aspetti delicati, primi fra tutti il dossier nucleare e i timori delle monarchie conservatrici per quella che considerano la politica destabilizzante delle autorità iraniane. La possibilità che questi contrasti facciano deragliare il processo appena avviato non si può, quindi, escludere.
Per gli Stati Uniti si tratta, comunque, di uno smacco; uno smacco che, fra l’altro, giunge poche settimane dopo che il Presidente Biden ha di fatto riconosciuto lo stallo dei negoziati per il rilancio del JCPOA. È vero che – come è stato rilevato – Washington ha molto da guadagnare da una riduzione della tensione nel Golfo e in Medio Oriente. D’altra parte, il successo della diplomazia cinese, il suo impatto sullo standing internazionale di Pechino e le prospettive che esso apre alla Repubblica popolare in una regione che ha tradizionalmente guardato agli USA come alla propria potenza di riferimento sono tutti motivi di preoccupazione. Anche a questo proposito è presto per parlare di una modifica strutturale degli equilibri regionali. Il nuovo accordo tripartito è, tuttavia, indice non solo del peso politico che Pechino ha assunto anche fuori dal suo ambito regionale di riferimento. Esso è indice anche di come le autorità saudite (come quelle delle altre monarchie del Golfo) pensino sempre più chiaramente il ruolo del proprio Paese fuori dagli schemi tradizionali e di come lo stesso Iran sembri avere trovato una sponda diplomatica alternativa a quella degli Stati Uniti per avviare con i propri vicini un processo di normalizzazione difficile, ma ritenuto sempre più necessario.