Non riuscendo a vincere sul campo, Putin spera di incrinare il sostegno occidentale e piegare Kiev a suon di missili, ma rischia di perdere il controllo delle dinamiche interne
Il riflesso condizionato della provocazione, della minigonna corta, della vittima che in fondo se l’è cercata è scattato di nuovo dopo il bombardamento missilistico sul centro di Kyiv di lunedì mattina.
Da più parti – soprattutto in campo filo-russo ma non solo – si è voluto interpretare l’ennesimo attacco alla popolazione civile da parte dell’esercito invasore come una “risposta” al colpo inferto dall’Ucraina al ponte di Kerch, l’unica via di comunicazione diretta tra Crimea e Russia.
La strategia della tensione
Eppure, per non cadere nuovamente nella trappola della propaganda di Mosca, non c’era nemmeno bisogno del comunicato del GUR (l’intelligence militare ucraina), secondo cui il Cremlino aveva dato fin dai primi giorni di ottobre istruzioni alle forze armate di preparare una campagna missilistica su infrastrutture civili e aree densamente popolate.
Bastava far memoria: i missili su Kyiv non sono una “risposta” a Kerch… come non lo sono stati quelli che dall’inizio della guerra hanno ripetutamente colpito Kharkiv, Mariupol, Melitopol, Kramatorsk, Zaporizhzhia, la stessa capitale e via elencando, in una macabra contabilità che ha caratterizzato sempre le due guerre di Putin: la prima, l’aggressione militare; la seconda, la mattanza terrorista contro i civili.
È invece nella sempre più probabile disfatta militare, nella serie di rovesci che da qualche settimana stanno mettendo alle corde gli alti comandi russi, nella frustrazione che attanaglia Putin e nelle pressioni che sta ricevendo dagli ambienti più intransigenti del suo regime, che affonda la strategia dell’escalation che ha portato alla ripresa dei bombardamenti su Kyiv (e vedremo nei prossimi giorni su quali altri obiettivi simbolici).
La campagna missilistica è in questo senso la prosecuzione di quella strategia della tensione volta a cambiare a tavolino una guerra che Putin non riesce a vincere sul campo: referendum-farsa, annessione unilaterale dei territori occupati, minaccia nucleare, ripresa dei bombardamenti.
Obiettivo, influenzare governi e opinioni pubbliche occidentali in modo da incrinare l’appoggio militare e politico al governo di Kyiv, spezzare il fronte della resistenza e costringere l’Ucraina ad un negoziato-resa. L’eroica “operazione speciale” si è ridotta in fondo a questa patetica dicotomia: di giorno i russi perdono sul campo di battaglia, di notte si rifanno sui civili.
Un leader indeciso
Ma mentre Putin prova come al solito a esportare le tensioni che scuotono il suo regime, le dinamiche che lo hanno sostenuto fino ad oggi sembrano sempre meno controllabili. Come nota l’analista Tatiana Stanovaya sul suo canale Telegram, oggi tra le élites russe la paura di perdere una guerra che era stata presentata come una cavalcata trionfale è così forte che la percezione di un leader indeciso sul da farsi “è diventata un problema”.
A questo si è aggiunta la mobilitazione “parziale”, che ha rotto il patto sociale tra il potere e il versante top tier della società, a cui Putin aveva promesso un’azione bellica rapida, risultati concreti a breve termine, stabilità interna e assenza di implicazione diretta in cambio della non interferenza nelle decisioni politiche e militari.
Le critiche dei “falchi”
Non è un caso che gli attacchi più incisivi nei suoi confronti arrivino non tanto da un fronte anti-war praticamente impercettibile ma proprio dai sostenitori attivi o passivi dell’intervento, che chiedono a gran voce l’escalation per evitare la disfatta.
Non solo i volti pubblici Kadyrov e Prigozhin, ma settori importanti del Ministero della difesa e dell’FSB si sono dimostrati da subito critici nei confronti delle modalità di conduzione del conflitto, a partire dal numero di effettivi inizialmente impiegati.
Ovviamente prima di arrivare al vertice del sistema sono a rischio alcuni anelli della catena a livello intermedio, a partire dal ministro della difesa Shoigu, alleato e amico personale del presidente ma del tutto sacrificabile in un’ottica di mantenimento del potere.
Lo smottamento sarebbe comunque rilevante: una cosa è sostituire uno o più generali, altra cosa è perdere un tassello portante della piramide di comando in seguito a pressioni interne. Il dominio assoluto dell’autocrate non sarebbe più tale.
Doppio rischio
Quanto sia probabile questa ribellione delle élites e dove possa condurre resta da vedere. Ma che Putin abbia messo in moto, con la sua scellerata guerra di conquista, i meccanismi che potrebbero portare alla fine del suo regime sembra ogni giorno più evidente.
La strategia della tensione presenta un doppio rischio per il Cremlino: da una parte alle minacce devono seguire i fatti, pena la perdita di credibilità agli occhi del nemico e degli apparati; dall’altra l’escalation contro i civili e l’eventuale uso di armi non convenzionali condurrebbe ad un allargamento del conflitto e al coinvolgimento diretto delle nazioni occidentali. In ogni caso, un vicolo cieco per il putinismo.
Enzo Reale – Atlantico