Lo scivolone a Varsavia: Biden evoca il regime change a Mosca, ma scatta l’intervento dei badanti e il presidente è costretto al dietrofront. Toppa peggiore del buco: una gaffe ingigantita dalle repentine rettifiche. Parigi Berlino e Bruxelles si smarcano, prime crepe tra gli alleati
Tirando un bilancio del viaggio del presidente americano Joe Biden in Europa, dove la scorsa settimana ha partecipato ad un vertice Nato e alle riunioni del G7 e del Consiglio europeo informale, per poi recarsi in visita in Polonia, potremmo facilmente definirlo deludente, prendendo in prestito le parole usate dal capo dello staff del presidente ucraino Zelensky, Andriy Yermak, per commentare le decisioni della Nato: “siamo molto delusi”.
Gli Usa e i loro alleati hanno confermato una linea molto prudente sia sugli aiuti militari, limitati ad armi “difensive” per non rischiare una escalation, sia sulle sanzioni economiche, non potendo l’Europa permettersi di rischiare un blackout energetico (non si tratterebbe di abbassare di qualche grado i termostati). “Ci aspettavamo più coraggio. Ci aspettavamo delle decisioni coraggiose”, hanno fatto sapere i vertici ucraini. Se non una no-fly zone, almeno jet da combattimento, i Mig su cui da Washington è però arrivato un altolà.
Il presidente Biden ha cercato di scolpire nella pietra la decisione dei governi europei di liberarsi della dipendenza dal gas russo, impegnandoli a garantire una domanda di gas liquefatto, che sarebbero gli Usa e altri Paesi, quali il Qatar, a fornire, fino a 50 miliardi di metri cubi l’anno, il che equivarrebbe a circa un terzo dell’import di gas russo. Ma per quest’anno i metri cubi in arrivo sarebbero solo 15. Il ministro dell’energia del Qatar ha chiarito che al momento non c’è alternativa per l’Europa al gas russo. Dunque, nulla che possa permettere ai Paesi europei di usare nell’immediato l’arma energetica per fermare la guerra di Putin. Piuttosto, un “aiuto” offerto dagli Usa per assicurarsi che gli europei prendano sul serio il loro impegno di liberarsi della dipendenza dal gas russo nel medio-lungo termine, il che però non è d’aiuto agli ucraini oggi.
Il tour europeo di Biden si è concluso con due news che ne hanno evidenziato l’estrema debolezza nella gestione di questa crisi. La prima, che non approfondiremo in questa sede, è la conferma della autenticità del laptop del figlio del presidente, Hunter Biden, e delle email in esso contenute, uno scoop del New York Post sul finire della campagna presidenziale del 2020 bollato come disinformatja russa dai media liberal e letteralmente nascosto agli elettori americani negli ultimi, decisivi giorni di campagna (Twitter, come ricorderete, arrivò a bannare la testata). Alla fine anche il New York Times ha dovuto ammettere che laptop ed email esistono, sono reali.
Ma cosa c’entra con l’Ucraina? Hunter Biden è stato nel cda di Burisma, una compagnia energetica ucraina, mentre il padre era vicepresidente degli Stati Uniti. In un video, l’allora vicepresidente si vantò pubblicamente di aver ottenuto il licenziamento del procuratore generale dell’Ucraina, Viktor Shokin, che stava indagando proprio sul cda di Burisma di cui faceva parte il figlio. Ora da quel laptop spuntano delle email da cui emerge il ruolo del figlio del presidente nel finanziamento di laboratori biologici in Ucraina, rafforzando così le accuse russe che il Paese fosse usato dagli Usa per lo sviluppo di armi biologiche.
Oggi, gli affari della famiglia del presidente in Ucraina, già noti al tempo della sua elezione, indeboliscono la posizione degli Stati Uniti nella crisi che vede al centro proprio quel Paese, offrendo il fianco alla propaganda russa, che giustifica l’invasione anche con la presenza di quei laboratori. Il New York Post e Donald Trump avevano quindi ragione a voler mettere in guardia il pubblico americano, l’ennesima dimostrazione di come i media liberal dal 2016 in poi siano riusciti a corrompere il dibattito politico Usa.
La seconda è la frase pronunciata da Biden sabato scorso, concludendo un suo discorso a Varsavia: “Per l’amor di Dio, quest’uomo (Putin, ndr) non può rimanere al potere”. Lasciando così intendere che sia il cambio di regime a Mosca l’obiettivo della politica Usa nel conflitto ucraino. Pochi minuti dopo infatti un funzionario della Casa Bianca si affrettava a rettificare, precisando che il presidente intendeva dire che “a Putin non può essere permesso di esercitare il potere sui suoi vicini o sulla regione” e che “non stava parlando del potere di Putin in Russia o di regime change“. Ieri è tornato sul punto il segretario di Stato, Antony Blinken, ricordando che gli Stati Uniti hanno detto ripetutamente che “non c’è una strategia di cambio di regime in Russia né altrove”. E in serata è arrivato il dietrofront del presidente stesso: “non ho chiesto un regime change” a Mosca.
Secondo i media Usa, la frase pronunciata da Biden era “fuori copione”, cioè non era prevista nel testo preparato. Il presidente si è lasciato prendere “dalla forza della sua retorica” e ha “cavalcato l’onda con una dichiarazione di nove parole che i suoi collaboratori non avrebbero voluto pronunciasse”, ha spiegato il Washington Post.
Ora, il presidente si è lasciato scappare una frase probabilmente inopportuna. Se fosse stata sostenuta dai fatti e dalla sua amministrazione, non sarebbe stata una gaffe. Ma se il regime change non è nei piani (e non ci sembra che gli Usa e i loro alleati abbiano messo in campo strumenti idonei a raggiungerlo), evocarlo può essere un autogol. Se per qualsiasi motivo non si realizza, si finisce con il rafforzare Putin anziché indebolirlo, per alimentare la sua paranoia e la sua determinazione in Ucraina. “Speak softly and carry a big stick”, recita l’adagio. Il problema è quando accade il contrario.
Le parole di Biden “hanno reso una situazione difficile ancora più difficile e una situazione pericolosa ancora più pericolosa, questo è ovvio”, ha commentato su Twitter Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations. “Il regime change può essere una speranza, ma non la base della nostra strategia”. Ed ha aggiunto: “È improbabile che il dietrofront della Casa Bianca risolva. Putin lo vedrà come una conferma di ciò in cui ha sempre creduto. Una brutta mancanza di autocontrollo che rischia di estendere la portata e la durata della guerra”. Ma Haass rappresenta l’establishment bipartisan della politica estera Usa, che spesso ha peccato di eccessivo “realismo”, anche negli anni ’80.
La frase di Biden è stata paragonata a quella celebre pronunciata da Ronald Reagan nel 1987 a Berlino, “Mr. Gorbachev, tear down this wall!”, anch’essa criticata in patria e all’estero dagli alleati. Due anni dopo, il Muro sarebbe effettivamente crollato, portando con sé l’Unione Sovietica.
Spiccano però alcune decisive differenze. La frase era nel testo del discorso, sebbene Reagan l’avesse inserita superando la riluttanza dei suoi collaboratori. Ma soprattutto, non fu immediatamente rettificata dalla sua stessa amministrazione (Josh Rogin su Twitter ne ha tratto una parodia: la Casa Bianca precisa che il presidente Reagan si riferiva all’album dei Pink Floyd, “The Wall”) e Reagan stava effettivamente, lucidamente perseguendo l’obiettivo di far cadere quello che aveva definito “Impero del Male” con gli strumenti che si sarebbero rivelati efficaci. Ciò non gli impedì di avere con Gorbachev un rapporto cordiale. Chissà, con un po’ di fortuna anche la frase di Biden avrebbe potuto invecchiare bene. Peccato che il suo stesso team non ci abbia creduto.
A nostro avviso infatti la toppa è stata peggiore del buco. Una rettifica così repentina, su un discorso all’estero molto delicato e altamente simbolico, a pochi chilometri da una guerra, rafforza l’immagine – già abbastanza radicata purtroppo – di un presidente circondato da badanti, sollevando dubbi su chi sia davvero al comando a Washington. Piuttosto che rettificare in un battibaleno, sarebbe stato meglio lasciare che fosse il presidente stesso a spiegarsi il giorno dopo. L’inglese The Spectator ricorda la frase di Obama sull’allora suo vice, “Don’t underestimate Joe’s ability to fuck things up”. Ma siamo sicuri che in questo caso non siano stati gli uomini che proprio Obama gli ha messo accanto ad incasinare ancor di più le cose?
Ieri sono arrivate dall’Europa nette prese di distanza dalle frasi pronunciate dal presidente Biden durante la sua visita in Polonia. “Non utilizzerei” la definizione “macellaio”, “perché continuo a discutere con il presidente Putin”, ha dichiarato il presidente francese Macron a Dimanche en Politique, su France 3. “Se vogliamo fermare la guerra che la Russia ha lanciato in Ucraina senza entrare in guerra”, non bisogna alimentare “una escalation né di parole né di azioni”, ha aggiunto. Velina di Parigi subito recepita da Enrico Letta: “il discorso di Biden era forse quel che ci si aspettava lì in Polonia, ma fuori ha aperto dubbi e interrogativi che è bene siano rapidamente chiariti”. Dunque, segretario del Pd un po’ meno anti-putiniano di quel che lasciava intendere…
Anche l’Alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, ha voluto precisare che “l’Ue non cerca nessun cambio di regime a Mosca”. Infine in serata anche il cancelliere Scholz ha chiarito che non è obiettivo della Nato raggiungere un regime change in Russia.
Le prese di distanza di Parigi, Berlino e Bruxelles (francesi sempre i primi a smarcarsi da Washington, sottolineando la loro ambizione a guidare la politica estera di una Europa autonoma rispetto agli Usa) mostrano cosa cova appena uno strato sotto l’unità transatlantica ritrovata in queste settimane. Il team Biden ha costruito l’unità Nato e Usa-Ue, di per sé un valore, su una linea d’azione minimalista in Ucraina, molto prudente. Su questa si fonda l’esibita compattezza dei Paesi Nato e Ue in questa crisi. Se ci fosse a Washington l’intenzione di fare qualcosa di più per l’Ucraina (intenzione che comunque non pare ci sia), tanto più che Putin sembra in difficoltà, molti partner chiave non seguirebbero, come dimostrano le reazioni all’uscita di Biden.
Opposto invece l’approccio prevalente a Londra. Nel suo commento di ieri sul Sunday Times, Dominic Lawson esorta a non concedere a Putin “una via d’uscita per salvare la faccia”. “Se gli ucraini sono pronti a resistere ad una lunga guerra, dovremmo sostenerli”. Non solo perché sarebbe “presuntuoso” stabilire noi le condizioni accettabili per loro, ma anche perché tali proposte vengono descritte come “salva-faccia” per Putin, “qualcosa che può presentare al suo popolo come una vittoria”. “Da una parte diciamo che è un criminale di guerra, dall’altra che dovrebbe poter rivendicare che il crimine di guerra paga”.
Ma il problema è: si sta facendo abbastanza? La sorpresa delle difficoltà russe e della resistenza ucraina è stata tale che qualcuno a Washington deve aver cominciato a pensare che il “minimo sindacale” che abbiamo visto all’inizio possa bastare per dare la spallata a Putin.
Una pericolosa illusione che abbiamo già analizzato su Atlantico Quotidiano, riprendendo un articolo di Niall Ferguson, il quale commentando l’uscita di Biden ha osservato: “Come ho detto la scorsa settimana, l’amministrazione Biden ha apparentemente deciso di strumentalizzare la guerra in Ucraina per determinare un cambio di regime in Russia, piuttosto che cercare di porre fine alla guerra in Ucraina il prima possibile. Biden l’ha appena detto ad alta voce. Una strategia altamente rischiosa”.
Insomma, la tentazione in alcuni ci sarebbe, ma i mezzi non sembrano comunque all’altezza, un vorrei ma non posso. Se questo è il piano, l’amministrazione Biden farebbe bene a rivedere i propri strumenti e a lavorare per portare a bordo gli alleati europei, se non vuole trovarsi molto presto con un fronte sfilacciato. Ma come abbiamo più volte sottolineato, ci sembra in un limbo, prigioniera della sua incertezza e delle sue contraddizioni: non fa abbastanza per difendere l’Ucraina e infliggere a Putin una severa punizione per il suo azzardo, ma ormai è andata troppo in là, soprattutto con la retorica, per potersi permettere di lasciar fare senza che il sacrificio di Kiev appaia come uno smacco e una grave ferita all’ordine di sicurezza europeo garantito dalla Nato.
A conferma di queste contraddizioni, ora che 800 miliziani di Hezbollah si uniranno ai russi in Ucraina, siamo curiosi di vedere come l’amministrazione Biden, che ha minacciato Pechino di “conseguenze” in caso di aiuti militari a Mosca, riuscirà a giustificare Teheran e a concludere l’Iran Deal 2.0, in partnership con lo stesso leader russo appena definito “macellaio” dal presidente in persona. Caos.
Federico Punzi – Atlantico