Il Washington Post rilancia, grazie a documenti dell’intelligence Usa, l’ipotesi di un’imminente aggressione russa. Ma tra le righe si scopre che i 175mila soldati russi pronti ad attaccare Kiev sono un’ipotesi solo “potenziale” mentre quelli realmente schierati sono appena 75mila

La partita non è dunque militare, ma politica e verrà affrontata nel vertice del 7 dicembre. Un summit in cui Putin cercherà di far capire a Biden che l’allargamento della Nato all’Ucraina rappresenta un’invalicabile linea rossa.
Chi vuole crederci può farlo. Chi, invece, non vuole finir ostaggio della propaganda farà meglio a leggere con attenzione i contenuti del presunto “scoop” con cui il Washington Post rilancia – sulla base di dichiarazioni e documenti non classificati passati dall’intelligence americana – l’ipotesi di un’imminente invasione russa dell’Ucraina.
Il primo dato che non torna riguarda il numero delle forze di Mosca schierate ai confini di Kiev. Il titolo del “Washington Post” parla di un “potenziale” di 175mila truppe pronte a marciare sui territori di Kiev. Un dato attribuito ad una fonte anonima dell’amministrazione secondo la quale “i piani comprendono il dispiegamento di 100 battaglioni tattici con un personale stimato di 175mila uomini affiancati da mezzi blindati, artiglieria ed equipaggiamenti”.
Un dispiegamento ancor più ampio di quello segnalato dall’Ucraina che settimane fa parlava di 94mila soldati russi pronti a marciare sui suoi territori. Continuando a leggere l’articolo del Washington Post si scopre che la realtà è ben diversa da quanto annunciato nel titolo. Il quotidiano, citando una cartina fornita dalle stesse fonti d’intelligence, ammette che “la mappa fissa il numero (di soldati russi) a 70mila, ma prevede una crescita fino a 175mila”. Nella realtà, insomma, i soldati russi schierati intorno alla frontiera ucraina sono al momento soltanto 70 mila. I 175mila citati nel titolo rappresentano invece una stima soltanto “potenziale”.
Ma settantamila soldati sono, più o meno, le truppe dispiegate nell’agosto del 2008 per invadere una Georgia nove volte più piccola di un’Ucraina che con i suoi 600mila chilometri quadrati di superficie, pari a due volte l’Italia, è uno dei più paesi più grandi d’Europa. Ora pur riconoscendo all’attuale apparato militare russo un’efficienza e una potenza ben superiore a quello misuratosi con scarso successo, nel Caucaso 13 anni fa, non si capisce come il Cremlino possa pensare di controllare l’Ucraina con una forza così ridotta.
Se invece l’intenzione reale è, come sostiene il Washington Post, di arrivare gradualmente ad un dispiegamento di oltre 175mila uomini ci si chiede perché Putin stia segnalando con tanto anticipo i propri piani. Piani che in assenza di un effetto sorpresa implicherebbero perdite consistenti e non garantirebbero il pieno controllo dei vasti territori ucraini. Le forze armate di Kiev grazie agli oltre due miliardi di aiuti in armi ed equipaggiamenti garantiti dagli Stati Uniti dopo il 2014 rappresentano oggi un osso duro anche per Mosca.
A tutto ciò vanno aggiunte le inevitabili incognite. La prima è quella di un’escalation capace di portare non solo ad uno scontro con gli Usa e la Nato, ma ad un conflitto nucleare. La seconda, quasi inevitabile, è quella di un isolamento economico senza precedenti sul fronte europeo. La terza è un’interminabile guerra d’attrito con una resistenza ucraina appoggiata dalla Nato pronta ad infliggere continue perdite alle truppe russe presenti nei territori occupati.
Tutte incognite su cui un Putin, stratega poco avvezzo all’improvvisazione, non ha, sicuramente intenzione di scommettere. Detto questo i presunti piani russi rivelati dal Washington Post fanno a pugni con quelli usati nel 2014 per garantirsi in poco più di un mese (27 febbraio- 30 marzo 2014) un’annessione della Crimea praticamente indolore. Un risultato ottenuto mobilitando meno di 30mila truppe, ma garantito dall’effetto sorpresa e dall’introduzione di tattiche asimmetriche tra cui le cyber tecnologie usate per paralizzare i sistemi di comunicazione ucraini.
Una strategia del genere difficilmente può venir replicata su un territorio molto più vasto e dove oltretutto, le truppe russe non possono contare, come in Crimea e nel Donbass, sul favore popolare. Con queste premesse il Risiko in corso sul fronte ucraino resta, almeno per il Cremlino, una partita più politica che militare. In gioco ci sono quelle linee rosse che impediscono a Putin di accettare un eventuale allargamento della Nato all’Ucraina.
I primi a saperlo sono i funzionari dell’amministrazione statunitense che in questi giorni hanno discusso con la controparte russa i preparativi per il summit in video-conferenza tra Biden e Putin del prossimo 7 dicembre.

La Russia ha bisogno di “precise garanzie legali e giuridiche perché fin qui i nostri colleghi occidentali non hanno rispettato gli impegni verbali che hanno preso” — ha spiegato Putin durante un discorso in cui ha suggerito “colloqui sostanziali su questo argomento”. Ogni eventuale accordo deve nelle intenzioni di Putin “escludere sia un’ulteriore espansione ad est della Nato, sia il dispiegamento di sistemi d’arma capaci di rappresentare una minaccia in prossimità dei territori russi”.

L’amministrazione americana continua, però, a rifiutare questo punto di vista. “Sono i paesi membri della Nato a decidere chi è membro della Nato e non la Russia” — ha ripetuto venerdì scorso il portavoce della Casa Bianca Jen Psaki rifiutando l’idea che Washington possa impegnarsi ad escludere dell’Ucraina dall’Alleanza Atlantica. Ma la questione posta dal Cremlino è tutt’altro che nuova o immotivata.

Volendo cercarne le origini bisogna tornare al febbraio 1990 quando il segretario di stato James Baker, al tempo segretario di Stato di George Bush padre, discusse con il presidente sovietico Mikhail Gorbaciov il ruolo della Germania unificata all’interno della Nato. Baker in quell’incontro garantì al presidente sovietico che “non ci sarebbe stata un’estensione della giurisdizione della Nato di un pollice più ad est” concordando con Gorbaciov nel sostenere che “tale allargamento sarebbe inaccettabile”. Ma si trattava di una discussione assolutamente verbale mai ratificata da un accordo. Subito dopo la caduta dell’Unione Sovietica la posizione statunitense cambiò sostanzialmente, ma l’amministrazione Clinton strappò un via libera a Boris Eltsin, divenuto nel frattempo presidente della Russia, grazie ad una promessa rivelatasi un’autentica presa in giro.
Nell’ottobre 1993 l’allora segretario di stato Warren Christopher garantì al presidente russo Boris Eltsin a nome di Clinton che gli Stati Uniti non avrebbero fatto entrare i paesi dell’est nella Nato, ma si sarebbero limitati a creare un “Partenariato per Pace” in cui far dialogare i paesi della Nato, la Russia e i paesi dell’Est. Eltsin, non comprese l’ambiguità e accettò la proposta, ma se ne penti l’anno dopo quando la vittoria repubblicana alle elezioni di “mid term” spinse Clinton ad abbracciare il programma di allargamento della Nato.
Da allora la questione rappresenta una ferita aperta. Una ferita che Vladimir Putin intende chiudere non con una guerra dagli esiti nefasti e imprevedibili, ma negoziando con Biden da una posizione di parità. Quello che non poté fare Eltsin presidente, a suo tempo, di una Russia debole e stremata.
Gian Micalessin – L’Indro