Lui lavora e tace, e fa impazzire gli inquilini dei ‘palazzi’ del potere. Sessanta giorni, prima del rush finale per il Quirinale. E, una volta lasciata libera la casella di Palazzo Chigi, chi al suo posto?
Si narra che Michelangelo Buonarroti, dinanzi alla maestosa scultura del Mosé da lui stesso creata, in preda a un eccesso d’ira abbia colpito con veemenza il ginocchio della statua con un martello, ed esclamato la celebre frase: «Perché non parli!?».
Forse una leggenda. Mosé: secondo le religioni monoteiste, è il profeta che conduce il popolo ebraico schiavo verso la libertà nella terra di Israele; giunto a un passo dalla Terra Promessa, dopo quarant’anni di errare nel deserto, muore sul monte Nebo, e non vi arriva da vivo.
E’ il destino di Mario Draghi? Ha il difficile, improbo compito di far uscire un Paese da una crisi che ha radici lontane, e che si dibatte in un’Europa e in un mondo che a loro volta cercano di uscire da una crisi aggravata da una quantità di fattori geopolitici, non ultima la pandemia. Autorevolezza e credibilità non scalfiti dalla quotidiana e logorante azione di governo, a capo di una coalizione dove c’è tutto e il suo contrario. Draghi lavora e tace, fedele al suo comandamento di sempre: lasciar parlare i fatti; soprattutto non fa trapelare quali siano le sue mosse e aspirazioni future. Così sono tanti con un martello in mano, pronti a scagliarlo, nella speranza di strappargli almeno un indizio circa le sue future mosse ed intenzioni.
Niente: Draghi non fiata. Non è dato sapere al momento quale sia la sua ideale ‘terra promessa’.
E’ questo silenzio, questo comprensibilissimo volersi tenere tutte le strade aperte, che fa impazzire gli inquilini dei ‘palazzi‘ del potere. Sanno bene che tutto ruota attorno al possibile monosillabo che Draghi può dire e che per ora non vuole pronunciare. Lui, ‘tecnico’ che conosce alla perfezione i trabocchetti della politica politicante, sa che una delle prime ‘lezioni’ alla vigilia di ogni elezione per il Quirinale è quella di mettere in circolo una quantità di nomi per bruciarli da una parte, per occultare il vero candidato dall’altra. In tanti, come per le elezioni al soglio di Pietro, entrano Pontefici, escono cardinali. Così col suo mutismo spiazza tutti. Del resto, nessuno gli può chiedere di chiarire oggi le sue intenzioni. Mancano due mesi al voto per il Quirinale. Per le persone normali, due mesi sono un battito di ciglia; in politica -e in questa fase in particolare- un tempo infinito: carriere individuali e alleanze partitiche possono crearsi e infrangersi nello spazio di poche ore. Di certo ci sono tonnellate di fango (vero o creato poco importa), pronte per essere scagliate contro le pale del ventilatore, in modo che possano sporcare il maggior numero di ‘attori’ politici. L’esibito conto corrente di Matteo Renzi da un giornale, senza che ci sia alcun tipo di reato nelle operazioni descritte (salvo quello commesso da chi ha divulgato il documento), è solo un antipasto delle sostanziose portate che arriveranno.
Così, ecco che un po’ tutti si trasformano in Sherlock Holmes o in Hercule Poirot, alla caccia di indizi. Per dire: Draghi da sempre lascia che il suo nome figuri tra i papabili, senza sognarsi di smentire. Significa dunque che conferma? Draghi non redarguisce Giancarlo Giorgetti, ormai impegnato in un sempre più evidente duello con Matteo Salvini per la leadership della Lega; non fiata quando Giorgetti fantastica pro domo sua di un semi-presidenzialismo giustificato dall’emergenza, e cioè un Presidente della Repubblica che continua a pilotare palazzo Chigi attraverso il Ministro anziano Renato Brunetta, o ancor più, ‘teleguidando’ il fidatissimo Daniele Franco. Poteva far filtrare dalle gole profonde di palazzo Chigi che lui non è d’accordo, e sarebbe finita lì. Non una sillaba, invece. Draghi imperturbabile, immarcescibile, di altro mostra d’occuparsi, distante e distaccato (e tuttavia, chi lo conosce, assicura che è ben presente, vigile segue tutti e tutto).
Vogliamo provare a uscire dagli spesso miopi circoli romani? A Milano, e meglio ancora, a Parigi, Berlino, Bruxelles, Zurigo, Washington, Londra? Ebbene un po’ ovunque si dà per scontato che alla fine Draghi il passo fatale lo farà. Sono buone informazioni o desideri che ci si augura diventino realtà? Fatto è che nei ‘salotti‘ del potere politico, economico e finanziario, il nome di Draghi è garanzia, un atout per la stessa Italia. Naturalmente la carica gliela dovrebbero servire su un piatto d’argento: reclamato a gran voce come la leggenda vuole sia accaduto a Lucio Quinzio Cincinnato; sarebbe la conclusione perfetta per un impeccabile match-play: direzione generale del Tesoro, Goldman Sachs, Banca d’Italia, Bce, Presidente del Consiglio; un percorso netto, senza sbavature, senza ombre e macchie. La candidatura è sulla bocca di tutti, ma lui osserva come distaccato, distante, una sottile espressione che non sai se è divertita, e se lo è, fino a che punto.
Ha ragione lui: Draghi vuole capire se può davvero farcela, e a che prezzo, firmando quali cambiali e a chi; se in Parlamento è disposto a concedergli i voti necessari; chi e come può controllare le decine di ‘franchi tiratori’ già pronti impiombarlo. Draghi al momento si limita a far sapere che non ritiene di mancare di rispetto al Presidente in carica, e che «sarà il Parlamento a decidere». Traccheggia; per ora tutti gli riconoscono le doti del salvatore, Mosé appunto. Ma nessuno è in grado di dire di che cosa sarà capace il Covid con le sue innumerevoli mutazioni; nessuno sembra preoccuparsi del prezzo che prima o poi si dovrà pagare per la valanga di denaro che ci accorda l’Europa; e poi l’agitarsi all’interno dei partiti che lo sostengono: i mal di pancia della Lega, i rumors all’interno del Partito Democratico; l’annaspare del Movimento 5 Stelle. Parlare di maionese impazzita è usare un eufemismo.
Sessanta giorni, prima del rush finale per il Quirinale. Ma una volta lasciata libera la casella di Palazzo Chigi, chi al suo posto?
Tra i parlamentari nessuno vuole elezioni anticipate: consapevoli che più della metà di loro non rimetterà piede a Montecitorio o palazzo Madama, hanno tutti l’intenzione di restare abbarbicati allo scranno parlamentare fino all’ultimo minuto secondo. Ma come aggirare il fatto che ci si troverebbe di fronte all’ennesimo esecutivo non confortato da alcun mandato elettorale, e certamente espressione di equilibri politici che non sono più quelli del Paese?
Se la sente Draghi, come suo primo, significativo, gesto politico, di sciogliere le Camere, e poi consegnare l’esecutivo a un Giuseppe Conte o a un Enrico Letta, o a un Salvini o una Giorgia Meloni? E di fronte a questi scenari, l’Europa che conta resta a guardare? E come reagirebbero i mercati? Ecco dunque le urla, le grida, i sussurri; le incertezze, i nervosismi, le manovre.
Qualche osservatore suggerisce una via d’uscita: Draghi convoca le televisioni e davanti alle telecamere dice che lui non si è mai sognato di accettare l’incarico di Presidente del Consiglio con la gesuitica riserva di farne trampolino di lancio; che lui non intende lasciare a metà il lavoro intrapreso. Dunque, altri siano i candidati per il Quirinale, si chiamino Romano Prodi o Giuliano Amato, Marta Cartabia o Maria Elisabetta Casellati, Dario Franceschini o Paolo Gentiloni, Pier Ferdinando Casini o chi diavolo si vuole. Sarebbe un bel discorso, in pieno stile Draghi. Ma ora la domanda: perché mai dovrebbe farlo? e chiudere da solo una possibile porta? No, gesti clamorosi non appartengono allo stile felpato e cardinalizio del Presidente Draghi. E nulla fa pensare che cambierà ora.
Ad ogni modo la corsa è in pieno svolgimento, e a chi ha occhi per vedere il ‘pollaio‘ politico è un po’ come un formicaio distrutto dalla pedata di un ragazzino, con le formiche impazzite che sembrano muoversi per ogni dove. Ma una logica, per quanto occulta, c’è, una trama che prima o poi risulterà evidente anche ai profani.
Valter Vecellio – L’Indro