Le tesi sulla conversione dei talebani in «tale-buoni», sulla loro volontà di affrancarsi dal terrorismo e sull’ipotetica sconfitta di quest’ultimo si stanno rivelando una pia illusione alimentata dell’amministrazione Biden nel tentativo di giustificare il disastro afghano. A suggerirlo contribuiscono sia l’attentato di ieri in Nuova Zelanda, rivendicato dall’Isis, sia le rivelazioni della stessa organizzazione secondo cui l’autore della strage all’aeroporto di Kabul, costata la vita a 170 persone tra cui 13 marines americani, era stato liberato dal carcere dagli stessi talebani solo poche ore prima della conquista della capitale.
Ma partiamo da Aukland. Il ritorno in campo di un «lupo solitario» armato di coltello dimostra quel che tutti già paventavano. La vittoria talebana, ben lungi dal restare un fatto isolato, si è già trasformata in un potente catalizzatore capace di risvegliare una galassia jihadista uscita tramortita dalle sconfitte di Mosul e di Raqqa. La vicenda del kamikaze dell’aeroporto spiega invece quanto infondata sia la pretesa di valutare, con razionalità tutta occidentale, la contrapposizione tra Al Qaida, talebani e Stato Islamico. Quelle contrapposizioni, seppur capaci di spingere allo scontro armato le diverse fazioni, non ostacolano, nè impediscono, quel fenomeno dei vasi comunicanti che spinge militanti e capi-bastone a transitare da un campo all’altro dello schieramento jihadista.
Al Baghdadi, fondatore dello Stato Islamico e del Califfato era stato il capo di Al Qaida in Iraq. Al Qaida, invece, non si fa problemi a salutare con entusiasmo la vittoria dei talebani in Afghanistan riconoscendo al loro capo spirituale Hibatullah Akhundzada il titolo, tutt’altro che onorifico, di Amir ul-Muminun, ovvero Emiro dei Credenti. Proprio da quel titolo sembra derivare ad Akhunzada una sorta d’autorità trasversale capace di estendersi dalla galassia talebana fino alle frange terroriste nascoste sotto il cappello di Al Qaida.
E lo stesso vale per l’Isis. La vicenda di Abdul-Rahman al-Logari, il kamikaze responsabile della strage ai cancelli dell’aeroporto di Kabul, è al riguardo assai emblematica. Fino al 15 agosto, giorno della conquista talebana della capitale, Logari era uno dei 4mila ospiti di Pul I-Charki, la galera alle porte della capitale dov’erano tenuti prigionieri militanti talebani, delinquenti comuni e terroristi di Al Qaida e dell’Isis. A rimettere tutti in libertà, senza distinzione di banda o fazione, ci pensarono i talebani in marcia verso la capitale. Restituendo così all’Isis una forza di parecchie centinaia di combattenti. A raccontarlo ci ha pensato, ieri, una pubblicazione in rete dello stesso Isis. «Dopo che le forze del governo sono fuggite Abdul-Rahman al-Logari e diversi altri – racconta il blog jihadista – sono scappati dal carcere e si sono precipitati dai loro fratelli» per compiere l’attacco suicida. Ma dietro la mossa di un movimento talebano che ha non solo rimesso in libertà i propri rivali, ma ne ha anche rivitalizzato le capacita operative, si nasconde una comune fede jihadista pronta a tutto pur di contrapporsi ad un governo alleato degli «infedeli» occidentali.
Per questo è assolutamente vano illudersi che i talebani rispettino le intese assunte a Doha denunciando o bloccando i militanti dei gruppi terroristi pronti a usare l’Afghanistan come base per nuovi attacchi all’Occidente. Un’attitudine già vista 20 anni fa quando il Mullah Omar e i suoi preferirono farsi annientare piuttosto che consegnare agli americani l’alleato e amico Osama Bin Laden.
Gian Micalessin – Il Giornale