Se sarà lo scontro finale, o, ancora una volta, sarà il penultimo scontro praticamente impossibile saperlo. Nel centro destra invece il duello per la leadership è appena iniziato. Il Partito Democratico resta appeso a mezz’aria
Nel tourbillon dei sondaggi che da anni sono agitati come clave pubblicitarie per dimostrare che si è in sintonia con la pubblica opinione (poi puntualmente smentiti dai fatti e dalla realtà), un’eccezione: si chiama Alessandra Ghisleri, che con la sua Euromedia Research puntuale coglie umori e tensioni del Paese. Non a caso i suoi sondaggi sono tra quelli più compulsati, e tenuti riservati. Mario Draghi riscuote la fiducia di una larga fiducia di italiani, circa il 60 per cento. In una situazione difficile e complessa come quella di queste settimane, è un risultato più che lusinghiero.
Appena ricevuto l’incarico di presidente incaricato, Draghi, dal palazzo del Quirinale, ha sillabato parole che è bene ricordare: «Con grande rispetto mi rivolgerò innanzitutto al Parlamento, espressione della volontà popolare». Quell’’innanzitutto’ è importante, interessante affermazione: è il riconoscimento pieno della centralità dell’istituzione parlamentare, delle sue prerogative, dei suoi doveri e dei suoi diritti. Poi, nel caso, ci si rivolgerà anche ad altro; un ‘altro’ che non può che essere la ‘volontà popolare’. I partiti sono avvertiti, si comportino di conseguenza. Infatti, fino ad agosto, quando scatterà il semestre bianco prima dell’elezione del Presidente della Repubblica, molto rumore; ma nessuno ha il coraggio di ‘vedere’ e scoprire davvero il gioco degli altri. Poi (ma intanto trascorre quasi un anno), si vedrà.
E’ della volontà popolare di cui ha massimamente paura il circuito dei partiti (di quello che ne è rimasto). Un ‘sistema’ da tempo è al collasso. Un giurista le cui opere andrebbero studiate e valorizzate molto più di quanto non siano, Giuseppe Maranini, critica ferocemente la partitocrazia, e osserva che in Italia la selezione della classe dirigente avviene alla rovescia. La situazione attuale è figlia legittima di questi due ‘genitori‘: partitocrazia e selezione rovesciata.
Gli studi e le rilevazioni di Ghisleri certificano che sostanzialmente esistono tre blocchi: uno, maggioritario, di elettori che ormai rifiutano in blocco il ‘sistema‘ attuale; un altro blocco, costituito dal centro-destra, maggioritario; e infine un terzo blocco che comprende il Partito Democratico, il Movimento 5 Stelle e altre entità.
Nell’ambito del centro-destra le posizioni si stanno chiarendo ora dopo ora: Lega e Fratelli d’Italia appaiono sempre più appaiati; Matteo Salvini e Giorgia Meloni si contendono la premiership. Questo spiega le recenti mosse del leader leghista: da una parte l’intesa con il Partito Radicale per la raccolta di firme su sei referendum per una giustizia più giusta. Dall’altra il progetto di federazione con la Forza Italia di Silvio Berlusconi. Salvini sente il fiato sul collo di Fratelli d’Italia: Meloni cresce, il suo partito è ben radicato e l’opposizione garantisce una comoda rendita di posizione, attira i non più garantiti del berlusconismo. Salvini e Berlusconi invece, puntano molte delle loro fiches sul governo Draghi. Se il governo centra gli obiettivi, ne raccoglieranno i frutti. Berlusconi, dei tre, è il più debole; anche il suo progetto è vago, un’enunciazione senza molto costrutto. Cosa significa ipotizzare per l’Italia una formazione politica simile al partito repubblicano statunitense? L’Italia non ha una tradizione di bipartitismo, per cominciare. Qualcuno poi lo dovrebbe aggiornare: i repubblicani d’oltreoceano sono ormai preda di bigotti tea-party e pascolo di estremisti alla Donald Trump. E’ questa la sua vocazione, è questo che auspica per l’Italia?
Il ‘duello‘ è agli inizi. Salvini si ripromette di raccogliere almeno un milione di firme per i sei referendum. Farà di tutto per raggiungere l’obiettivo: quel milione di firme ‘peseranno’ nei prossimi mesi, all’interno della coalizione di centro-destra e anche in quella governativa: sarà un modo per ‘contare’ e per contarsi. Per ora sono manovre di assestamento, il meglio deve ancora venire.
Assai più terremotata e terremotante, la situazione nel campo dei Cinque Stelle. Il movimento di Beppe Grillo può ancora -e nonostante tutto- contare su un bacino che oscilla sul 15-17 per cento, non sono cifre di un partito in via di liquidazione; considerando le ‘mattane’ del fondatore, è un qualcosa che ha dell’incredibile. Corrisponde alla realtà? Vattalapesca.
Indubbiamente gli elettori grillini per primi appaiono disorientati, si interrogano sul futuro del M5S. Grillo e Giuseppe Conte sono allo showdown. E’ lo scontro finale, o, ancora una volta, sarà il penultimo scontro? Una quantità di esponenti del Movimento, Luigi Di Maio in testa, sono al lavoro per riannodare fili che al momento appaiono logori e irrimediabilmente sfilacciati. Ma in politica mai dire mai; e Grillo da sempre ci ha abituato a capriole e giravolte stupefacenti.
Non si capisce, tuttavia, come l’uno e l’altro possano fare uno o più passi indietro, senza perdere il residuo di faccia e credibilità. Conte vanta un credito politico derivante dall’esperienza di Presidente del Consiglio. Ma un conto è un consenso che viene procurato dalla postazione di Palazzo Chigi, altro è doverlo raggranellare come capo di un partito. Chi ci ha provato in passato, si chiamasse Lamberto Dini o Mario Monti, ha poi raccolto risultati miseri, da prefisso telefonico; e anche a Matteo Renzi, con tutto il suo frenetico agitarsi, e pur potendo contare su una stampa amica, le cose non vanno meglio. Nulla fa credere che il consenso e la simpatia di cui gode Conte, si traduca in risultato soddisfacente nelle urne.
Come sia, all’interno del movimento si consuma un vero e proprio psicodramma. Non bastava il video in difesa del figlio accusato di violenza sessuale; non bastava il ‘divorzio’ con Davide Casaleggio e la poco edificante contesa per la ‘roba’ accompagnata da strascichi giudiziari e accuse di ‘tradimento’. Il contrasto con Conte rischia di essere il colpo finale per un movimento che non ha saputo e voluto diventare adulto. Finita l’estate, quel che resta del movimento dovrà fare i conti con le elezioni amministrative. Aver voluto giocare a tutti i costi, a Roma, la carta dell’uscente sindaco Virginia Raggi, il cui mandato è più che deludente, può costare molto cara.
E il Partito Democratico? Resta appeso a mezz’aria, come il famoso caciocavallo di Benedetto Croce; come le stelle di Archibald Cronin sta a guardare. Come il famoso orologio fermo segna due volte al giorno l’ora giusta; ma sempre di orologio guasto si tratta.
In questo scenario, governa Draghi, che si confronta con tutti, e non si confonde con nessuno. L’intesa con il Presidente della Repubblica è buona, e giustamente osserva con sufficienza il dire e il fare di questo e quello. Draghi e Mattarella sono consapevoli che il Piano di ripresa e resilienza è decisivo per il rilancio del Paese, ma è la condizione necessaria, non la soluzione del e dei problemi; che per questo occorre un mutamento radicale del Paese: non solo le riforme che l’Unione Europea ci impegna a realizzare: pubblica amministrazione, fisco, giustizia. E’ l’intero sistema produttivo che va trasformato, in profondità. Pochi e poco si è riflettuto sul recente voto in Francia: ha votato un terzo degli elettori. E’ il segno, ulteriore, di una grave e profonda crisi: della democrazia.
Valter Vecellio – l’Indro