E poi c’è il resto, a partire da Erdogan ‘dittatore’, non certo una gaffe, è politica, ora che la politica estera non è più nelle mani degli inesistenti Giuseppe Conte e Luigi Di Maio
Semplice l’equazione, complicata la soluzione. Bastano sei parole, per descrivere la intricata matassa che il Presidente del Consiglio è chiamato a sbrogliare. L’imperativo è ridare sviluppo e impulso all’economia; riaccendere i motori dell’azienda Italia. Perché non restino vuote parole e per disinnescare tensioni che covano e possono avere sviluppi difficili da controllare, occorre che dal punto sanitario-pandemico la situazione si ‘normalizzi‘: vaccinazioni a tappeto. Sembra facile: domenica: 331 morti; sabato 334 morti; venerdì 718 morti; giovedì 487 morti; mercoledì 627 morti; martedì 421 morti; lunedì 296 morti… Più di tremila decessi, e si parla di quelli ufficiali.
No, così la situazione non è più sostenibile, dice Mario Draghi ai suoi collaboratori più stretti. Sarà pure che i vaccini non arrivano o arrivano con il contagocce; sarà pure che appena allenti un poco la morsa ecco che una quantità di persone la interpretano come un ‘liberi tutti’; sarà che questo perfido virus ha mille varianti insidiose e per quanto lo si studi, è un qualcosa ancora in buona parte sconosciuto, un ‘maledetto’ con cui occorrerà imparare a convivere, e lo si impara giorno dopo giorno, lo si sperimenta dal vivo. Sarà pure come dicono gli scienziati più autorevoli: un giorno se ne verrà a capo, ma intanto?
Intanto c’è chi, in Parlamento, nella maggioranza e nell’opposizione, e nelle piazze, specula, soffia sul fuoco; conduce un gioco irresponsabile…e va ancora bene: il credito che l’attuale governo ha nel Paese, a dar retta ai sondaggi (quelli riservati, non quelli commissionati per far propaganda), dicono che ci sono ancora larghi margini di fiducia; ma si fa presto a sciuparli. Lo sa bene Giuseppe Conte; e prima di lui Matteo Renzi… Tra qualche mese poi scatterà il semestre bianco; le Camere non possono essere sciolte alla vigilia dell’elezione del prossimo Presidente della Repubblica. Per il Colle le manovre sono già in corso da tempo, sono almeno una decina a coltivare più o meno giustificati, questo sogno. Soprattutto avendo la certezza che il Parlamento non sarà più possibile scioglierlo se non a scadenza naturale, tutti i partiti nessuno escluso si mobiliteranno in una campagna elettorale che non è mai cessata, ma avrà toni e accenti molto più accesi e marcati di sempre.
Questo lo scenario in cui è costretto a operare Draghi. Più d’uno gli rimprovera l’‘uscita‘ nei confronti del tiranno di Ankara, quel Recep Tayyip Erdogan bollato come ‘dittatore’ con cui «bisogna essere franchi nell’esprimere la differenza di vedute, di comportamenti, di visioni, ma pronti a cooperare per assicurare gli interessi del proprio Paese».
Certo, diritti umani e interessi (leggi ‘affari’) richiedono una dote di straordinario equilibrismo. Erdoğan reagisce convocando l’ambasciatore italiano, ma soprattutto sospendendo lucrose commissioni militari, come gli elicotteri bollati col marchio ‘Leonardo’. Ma quello impresso da Draghi è un cambio di passo necessario.
La mancata poltrona alla Presidente della Commissione Ursula Von der Leyen, al di là dell’indubbia arroganza del satrapo di Ankara, è stata un’umiliazione nei confronti dell’Unione Europea, a cui scelleratamente ha prestato bordone il Presidente del Consiglio europeo Charles Michel.
Ci si domanda cosa siano andati mai a fare i due ad Ankara. Presto detto: sono aperti e in attesa di definizione dossier sulla sicurezza nel Mediterraneo, e il ruolo che la Turchia svolge in quell’area, che si estende fino alla Libia. In soldoni (è il caso di dirlo), si traduce in altri sei miliardi di euro, oltre quelli già erogati; un finanziamento accompagnato da una politica dei visti elastica nei confronti dei turchi che cercano lavoro nei Paesi dell’Unione Europea. In cambio di questo ben di Dio? L’impegno a trattenere in Turchia i quasi quattro milioni di rifugiati siriani. Scelta eticamente discutibile, quella di affidare a Erdoğan il compito di ‘vigilare’ sulle frontiere europee; ma è quello che accade (i famosi ‘interessi del Paese’). E del resto, lo si fa anche in Libia: stesso schema, anche se gli attori sono diversi, e le elargizioni variamente distribuite.
La poltrona negata a Von der Layen ha mostrato in modo che più plastico non poteva essere la sostanziale differenza dell’Unione Europea. Verso la Turchia, e non solo. Ieri Erdoğan, ma in precedenza la Russia. Sergej Viktorovič Lavrov, Ministro degli Esteri russo, non ha esitato a definire l’Unione Europea un ‘partner inaffidabile’, in occasione della recente visita a Mosca di Josep Borrell, rappresentante dell’UE per gli Affari Esteri e la politica di sicurezza.
Debole l’UE, ancor più l’Italia. La recente visita di Draghi a Tripoli ha avuto un solo scopo: quello di dire a Russia, Turchia (e Francia), che in Libia gli italiani vogliono tornare a ‘giocare‘. Nelle cancellerie sanno bene che la politica estera non è più nelle mani degli inesistenti Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. Di conseguenza si regoleranno.
Sul fronte più squisitamente interno, il Presidente del Consiglio prende atto che i ‘nodi‘ lasciatigli in eredità da Conte, vengono al pettine. Contratti tagliola con i produttori dei vaccini anti-Covid; forniture al di sotto del concordato; una sanità di base al collasso. L’errore (non imputabile a Draghi) di lasciare che una quantità di categorie non a rischio saltassero comunque la fila; le regioni che procedono in ordine sparso, e tendono ad assumersi responsabilità, pur rivendicando di poter dettar legge, forti di una sgangherata riforma del titolo V della Costituzione… La partita si gioca qui: se Draghi entro l’estate sarà in grado di raggiungere l’immunità di gregge, potrà legittimamente essere considerato un ‘salvatore‘ della patria. Qualche mese sapremo, se Draghi vittorioso: un Garibaldi trionfante per l’impresa dei Mille, o come lui sconfitto a Mentana e in Aspromonte.
L’altro insidioso dossier cui metter mano in parallelo con quello della Pandemia, riguarda l’economia. Sulla scrivania del Presidente del Consiglio un corposo dossier elaborato dell’Ufficio Studi di Confindustria. Nero su bianco si prevede un graduale recupero, concentrato nella seconda metà dell’anno: un +4,1 nel 2021, un 4,2 di PIL nel 2022. Positivo? «Non si tratta di crescita», ammonisce Confindustria. Anzi, si profila quella che definisce «un’incerta risalita dalla voragine: a fine 2022 l’economia italiana avrebbe a stento chiuso il profondo gap aperto nel 2020 dalla pandemia». Per quel che riguarda il PIL di quest’anno, una revisione al ribasso di 0,7 punti: taglio motivato da due trimestri, l’ultimo dell’anno scorso e il primo del 2021: più negativi di quanto ci si aspettasse; colpa del peggioramento della crisi sanitaria. La previsione è condizionata (ecco il punto dolente) dall’avanzamento della vaccinazione di massa in Italia e in Europa e quindi l’incertezza dell’ipotesi che «la diffusione del Covid sia contenuta in maniera efficace a partire dai prossimi mesi». Tutto si tiene, insomma. Più di sempre determinanti i vaccini, spiega Stefano Manzocchi, direttore del Centro studi.
Se questo è lo scenario si capisce, vero, che suona patetico l’agitarsi di un Davide Casaleggio che batte cassa coi suoi ex sodali del Movimento 5 Stelle; le lacerazioni del centro-destra per qualche trespolo in più o in meno in commissioni di nessun concreto potere come il Comitato Parlamentare di Controllo sui Servizi Segreti (figuriamoci se i ‘servizi’ si fanno controllare da parlamentati che stanno all’opposizione); e altre simili amenità. E anche le questioni che agitano il Partito Democratico: il felpato e cardinalizio Enrico Letta ancora non è riuscito a sbrogliare i nodi dei capilista per le elezioni amministrative in città importanti come Roma, Bologna, Napoli; deve poi riuscire a districare un altro complicato nodo: quello della legge elettorale. E’ chiaro che con l’attuale, il PD non vuole andare a elezioni. Dovrà trovare una quadra, per accontentare gli alleati minori, e superare i veti di centro-destra e grillini.
Il partito appare più che mai frastornato e preda di scorribande tra i vari gruppi che si stanno posizionando. Già se ne colgono i ‘segnali’. Torna per esempio a farsi sentire Goffredo Bettini, che a giorni presenterà una sua piattaforma politica. Usa toni rassicuranti: «Un’area di pensiero plurale, aperta, priva di un leader monocratico, che si pone l’obiettivo di contribuire alla ricerca di una più forte identità del PD e di pesare negli orientamenti del campo democratico. Non è una corrente, ci tengo a sottolinearlo». Un invito alla serenità che avrà fatto fischiare le orecchie a Letta.
Resta da dire qualcosa su Matteo Salvini e la sua Lega. E’ ancora il partito che raggranella il maggior consenso, a dar credito ai sondaggi. E tuttavia anche nella sua barca qualche scricchiolio inquietante si registra. Salvini sembra come vagare in un labirinto, condannato a un’ambiguità che lo condanna a essere un giorno ‘di governo‘, l’altro ‘di opposizione‘.
Identico discorso, volendo allargare l’orizzonte, lo si può fare con il Movimento 5 Stelle: stessa ‘ambiguità‘, sia pure di opposto segno; stessa capacità di intercettare parti di pubblica opinione smarrite e sfiduciate (ora forse un po’ meno). Stesse contorsioni, un ‘labirinto‘ speculare.
Tuttavia: c’è un oste con cui da tempo non si fanno i conti; perché non si sa? Perché non si vuole sapere? Premesso che gli assenti hanno sempre torto, comunque ‘assenti’ ce ne sono, costituiscono una realtà. Da anni quote di pubblica opinione con diritto di voto, rinunciano ad esercitare questa fondamentale facoltà: ormai si è consolidato un buon 50 per cento di elettori che pervicacemente non depone la scheda nell’urna (e non si sa quanti siano coloro che la lasciano in bianco, o l’annullano). Quote di pubblica opinione che, a torto o ragione che sia, lanciano questo messaggio: ‘Ci avete tutti delusi, tutti ci fate schifo‘. Quando si citano le percentuali di consenso, siano quelle di Matteo Renzi (un tempo), di Salvini o dei grillini, si omette sempre di specificare: 30-40 per cento del 50 per cento degli elettori. Detta così, la percentuale del consenso si ridimensiona di parecchio, la ‘fotografia’ della realtà è differente da quella che per ‘pigrizia’ o interesse si mostra. Ne avremo ulteriore plastica dimostrazione alle elezioni amministrative che prima o poi si dovranno fare; per esempio, per il Comune di Roma né centro-destra né Partito Democratico ancora abbiano candidati di spessore. In campo è scesa solo l’uscente Virginia Raggi, a capo di una delle peggiori amministrazioni che il Campidoglio abbia avuto; tutto questo comporterà fatalmente una disaffezione e una ‘diserzione’ di massa dalle urne.
Sono venuti meno una serie di corpi intermedi (sindacato, partiti politici, luoghi di incontro, scontro, dibattito, riflessione), che un tempo erano anche ‘luoghi‘ di apprendimento, formazione, trasmissione di ‘saperi‘, dove si ‘ereditavano’ memorie e ricordi. Ci si è cullati dietro l’illusione che tutto ciò potesse essere sostituito da un cellulare, da un computer, dalla mitizzata ‘rete’. Internet è comodo, ma partecipare, dialogare, riflettere, capire, sapere, chiedono, esigono applicazione, e anche fatica, impegno, costanza, rigore. Il passato non torna, ma il presente mostra un ‘vuoto‘ che fa presagire un più che fosco futuro.
di Valter Vecellio