La giornata del 31 marzo è stata monopolizzata dalla diffusione di una notizia che ha gettato nello sconcerto l’opinione pubblica e il governo Draghi: il Cremlino avrebbe adescato un ufficiale della Marina militare italiana, tal Walter Biot, persuadendolo a cedere informazioni riservate e classificate in cambio di denaro. Determinanti i problemi economici dell’uomo, provocati dalla pandemia e abilmente strumentalizzati da un reclutatore di stanza presso l’ambasciata russa a Roma.

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Colti sul fatto, ovverosia al momento dello scambio, i due hanno subito dei destini radicalmente differenti: il militare italiano è stato tradotto in carcere, da dove attenderà un processo per rivelazione di segreti militari a scopo di spionaggio, mentre l’omologo russo ed il suo superiore sono stati fatti oggetto di un ordine di espulsione da parte di Luigi di Maio, titolare della Farnesina.

La domanda, come sempre in questi casi, è la seguente: Cui prodest? A chi giova il deterioramento delle relazioni bilaterali tra Cremlino e Palazzo Chigi in un momento delicato quale attuale? Sicuramente né all’Italia, entusiasticamente in fermento per la cooperazione vaccinale e un possibile lenimento delle sanzioni russe ai prodotti alimentari nostrani, né alla Russia, che si gioca la fiducia di una storica “voce amica” all’interno della Comunità euroatlantica, ma ad un insieme variegato di giocatori accomunati dall’obiettivo di aumentare le frizioni lungo l’asse Roma–Mosca.

Qualcosa non torna, parla Mori

Il 31 marzo ha avuto delle accezioni profondamente diverse per Italia, AustriaFrancia e Germania, sebbene tutte legate alla Russia. Per noi il 31 marzo è la data dell’arresto del capitano di fregata Walter Biot, dato in pasto al pubblico il giorno dopo, per Vienna è la conferma dell’esistenza di un tavolo negoziale per l’acquisto di un milione di dosi di Sputnik V e per Berlino e Parigi è il giorno di una video-conferenza a tre fra Angela Merkel, Emmanuel Macron e Vladimir Putin durante la quale si è discusso di cooperazione multisettoriale.

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Il 31 marzo, in breve, è stato funesto soltanto per l’Italia, la cui timida corsa in direzione della Russia, nel nome della cooperazione vaccinale e della mitigazione dell’embargo alimentare, ha subito un brusco arresto. Come abbiamo spiegato in occasione dello scoppio dello scandalo spionistico, è altamente probabile che il Cremlino reagisca all’espulsione dei due funzionari in maniera simmetrica, oppure “asimmetrica al ribasso”, perché non è nel suo interesse un ulteriore deterioramento delle relazioni bilaterali con Roma. Se al caso seguiranno ritorsioni di una certa gravità, riguardanti Sputnik V, sanzioni e altri dossier, esse proverranno da parte italiana. Perché, come ha spigato Mario Mori, ex direttore del Sisde, c’è qualcosa che non torna nella vicenda: la canea (forse) voluta da qualcuno per ragioni politiche.

Cui prodest?

Mori, non certo un dietrologo da bar, si è detto meravigliato dal “clamore” mediatico del caso, osservando come “potrebbe trattarsi della solita, banale lingua lunga di qualche nostro funzionario che parla con la stampa, però mi sembra strano, perché conosco quelli che lavorano in quel settore e non hanno la lingua lunga”. Conoscendo l’ambiente dello spionaggio e ricollegando la vicenda al clima guerrafreddesco che sta avvolgendo l’arena internazionale, ne consegue, secondo Mori, che potrebbe aver avuto luogo una “fuga di notizie” data da “qualche decisione a livello governativo, anche in un quadro di valutazione di politica generale”.

L’ex direttore del Sisde non ha dubbi: “il caso è stato ingigantito, perché tutto sommato quell’ufficiale, un tenente colonnello con quella collocazione, non è che poteva avere i segreti della Nato”. Di nuovo, la domanda è sempre la stessa: cui prodest? L’ingigantimento del caso, con annesso un possibile deterioramento delle relazioni bilaterali tra Roma e Mosca, potrebbe giovare soltanto a quattro attori: Washington, Berlino, Parigi e la lobby atlantica nostrana.

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La stampa specializzata, del resto, ha già intravisto dei possibili messaggi subliminali nel caso Biot – il cui adeguato leveraggio potrebbe consentire al governo Draghi di reiterare alla Casa Bianca il fermo posizionamento atlantico dell’Italia, nonché di ridurre ulteriormente i sentimenti russofili di una certa area politica, ottenendo in cambio dei maggiori margini di manovra nel Mediterraneo –, ma non ha approfondito l’altra pista: quella di un possibile sabotaggio ordito tra Parigi e Berlino a danno della consolidata tradizione diplomatica dell’Urbe, in dialogo attivo (e proattivo) con Mosca anche ai tempi della Guerra Fredda.

Il tempo aiuterà a comprendere chi ha perduto e chi ha guadagnato dal caso Biot, ma qualcosa già la sappiamo: presagi funesti ed eventi lugubri accadono ogniqualvolta fra Palazzo Chigi e Cremlino vi siano prove di riavvicinamento (il “Savoinigate” docet) e, del resto, mentre a Roma si piangeva, a Berlino e Parigi si rideva (in compagnia di Mosca). Mori ha sollevato dei dubbi legittimi; al pubblico l’onere di riflettere sulle zone grigie dello scandalo e di rammentare qual è il contesto che sta facendo da sfondo all’intera vicenda: la nuova Guerra Fredda.

Emanuel Pietrobon