Zoom all’indietro sulla Bielorussia. Lunedì mattina Maria Kolesnikova, l’unica delle tre leaders della protesta rimasta in patria, viene caricata su un minivan da un gruppo di incappucciati in piena luce del giorno.

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Minsk comincia la settimana come l’aveva finita poche ore prima quando, al termine dell’ennesima manifestazione massiva nei pressi del palazzo presidenziale, squadre di uomini mascherati si erano dedicati a detenere i partecipanti e a vandalizzare i negozi del centro. Le fotografie diffuse dai siti vicini all’opposizione rivelavano tra di loro il volto di Mikalai Karpiankou, capo del dipartimento del Ministero degli interni preposto a combattere il crimine organizzato. Una delle tante immagini emblematiche della crescente repressione statale, funzionari del governo comportandosi come delinquenti comuni nelle strade della capitale. Aumentiamo la distanza dell’obiettivo. Uomini in divisa verde, senza identificazione, corrono dietro ad uno dei tanti assembramenti in cui da settimane si chiedono la ripetizione delle elezioni e la liberazione dei prigionieri politici. Sono soprattutto donne, quasi sempre donne, impegnate a mani nude contro gli agenti della reazione, spesso costrette a rannicchiarsi contro i muri di un edificio sotto la minaccia dei manganelli. Quegli uomini verdi nessuno sa esattamente chi siano, da dove arrivino, chi rappresentino, anche se la loro presenza fuori dai palazzi governativi ricorda tanto la Crimea del 2014, dove improvvisamente cominciarono ad affluire dalla Russia centinaia di “consiglieri” per prendere possesso dei punti nevralgici delle città principali e preparare il terreno alla successiva annessione.

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Di Maria Kolesnikova e di altri due rappresentati del Consiglio di Coordinamento (il comitato voluto da Thikanovskaya per organizzare l’opposizione) – Anton Rodnenkov e Ivan Kravtsov, anche loro sequestrati – non si saprà nulla fino a notte inoltrata, quando ricompariranno al confine con l’Ucraina, “accompagnati” dalle autorità bielorusse verso l’espatrio. I due uomini attraversano il confine a bordo di un’auto mentre Kolesnikova, in uno di quei gesti destinati a costruire un’epica rivoluzionaria, strappa il suo passaporto e scappa dal finestrino per evitare la deportazione. Adesso è rinchiusa nella prigione di Valadarskaha, accusata di tentato colpo di stato. Del Comitato non resta quasi nessuno a piede libero, dopo che mercoledì mattina anche l’avvocato Maxim Znak è stato risucchiato dalle segrete dello Stato. Serghej Dylevskij, protagonista degli scioperi nelle industrie statali, è in ancora carcere, Olga Kovalkova si è rifugiata in Polonia e perfino l’ex ministro Pavel Latushko ha abbandonato la madrepatria. Solo il premio Nobel Svetlana Aleksievich vive ancora nel suo appartamento di Minsk (per il momento è stata “solo” interrogata), da dove ha mandato un messaggio premonitorio: “Presto arriveranno anche qui”.

Belarusian President Alexander Lukashenko, center, gives a speech during a military parade that marked the 75th anniversary of the allied victory over Nazi Germany, in Minsk, Belarus, Saturday, May 9, 2020. (Sergei Gapon/Pool Photo via AP)

La strategia del regime nei confronti dei rappresentanti visibili dell’opposizione segue ormai uno schema consolidato: prima le intimidazioni, poi la detenzione/sequestro, infine la deportazione. L’obiettivo di Lukashenko è presentarsi alla prossima riunione con Putin come l’unico interlocutore possibile, consapevole che se il Cremlino disponesse di un’alternativa credibile probabilmente farebbe a meno di lui. Kolesnikova aveva appena fondato un partito (Insieme), ed è stata questa la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Difficile, a questo punto, non mettere in relazione l’avvelenamento di Navalny con la situazione in Bielorussia.

epa08518129 Russian President Vladimir Putin (R) and Belarus President Alexander Lukashenko (L) take part in the unveiling ceremony of the Rzhev Memorial to the Soviet Soldier near the village of Khoroshevo outside the town of Rzhev in the Tver region, Russia, 30 June 2020. The 25-metre-tall bronze figure of a Soviet soldier on top of a 10-metre-high hill commemorates Soviet soldiers who lost their lives in World War II.  EPA/MICHAEL KLIMENTYEV/SPUTNIK/KREMLIN POOL / POOL MANDATORY CREDIT

Domenica si vota in Russia per il rinnovo di diverse amministrazioni regionali e la campagna per il “voto utile” (tutti i candidati meno quelli putiniani) stava di nuovo facendo scricchiolare le certezze del presidente e di Russia Unita, come l’anno scorso nel voto per il Parlamento di Mosca. Adesso, nei due Paesi che Putin vorrebbe uniti per sempre, tutti gli oppositori più scomodi sono fuori gioco o fuori dai confini nazionali. Il tempo dirà quanto la decapitazione dei leader influirà sull’evoluzione delle proteste anti-regime. Per il momento la spinta popolare a Minsk sembra trarre forza dalla repressione e le conseguenze dell’attentato a Navalny su un movimento tutto sommato marginale nella società russa sono ancora tutte da valutare. Quel che si può affermare con certezza è che, sia che si tratti di ordini dall’alto o di situazioni nate da un “condizionamento ambientale”, la persecuzione di Navalny e Kolesnikova rivela in pieno la corruzione morale dei rispettivi governi e il loro affanno nel gestire le sfide dirette al potere.

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La rivoluzione civile in Bielorussia ha paradossalmente rafforzato la relazione tra Lukashenko e Putin che, negli ultimi mesi, era stata sul punto di rompersi più volte per le diatribe sulle forniture del gas e gli ammiccamenti di Minsk a Washington. I due non si amano, è manifesto, ma oggi più che mai hanno bisogno l’uno dell’altro. Il problema principale è che questa dipendenza è evidente anche a una popolazione in linea di principio non animata da sentimenti anti-russi ma tuttavia cosciente che l’intervento di Mosca è il maggior ostacolo alla caduta del regime in casa propria. Il risveglio di un sentimento nazionale tra i bielorussi è figlio di questa consapevolezza: se la lotta per la libertà non coinciderà con una reale indipendenza nazionale, la battaglia non si potrà considerare considerata vinta. Se Mosca rappresentasse un modello democratico a cui ispirarsi, la rivoluzione si sarebbe già compiuta. La realtà, però, è un’altra e a una nazione stanca di una dittatura che, salvo una breve parentesi tra il 1991 e il 1994, dura ininterrottamente da quasi cent’anni (prima l’URSS, poi Lukashenko) non resta che sperare nell’appoggio morale e politico dell’Unione europea.

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Per il momento Bruxelles rifiuta di sanzionare Lukashenko, sperando di mantenere aperto un non meglio precisato “canale di dialogo”. Putin d’altra parte è conscio della necessità di una transizione a Minsk, un passaggio di potere che risulti favorevole ai propri interessi e che gli permetta, nel medio periodo, di realizzare l’unione tra le due entità statuali, grazie a cui estendere la quota di influenza russa nella fase finale del suo interminabile mandato. È superfluo sottolineare quanto questo piano d’azione sia lontano dai desiderata dei bielorussi che stanno rischiando l’incolumità fisica contro un regime disposto a tutto pur di perpetuarsi, anche a svendere una sovranità nazionale che, in ogni caso, sta già dimostrando di usurpare.

Per raggiungere l’obiettivo, oggi Mosca ha bisogno di mantenere al potere Lukashenko. La strategia è già operativa, come dimostra l’invio di agenti dell’intelligence, tecnici informatici, consulenti per la sicurezza nazionale e funzionari della propaganda, che hanno di fatto occupato la televisione statale bielorussa, prendendo il posto di un gran numero di colleghi dimissionari. Lo stato maggiore di RT (Russia Today) è arrivato a Minsk martedì, capitanato da Margarita Simonyan, vera eminenza grigia (ma anche lei vestita di verde) dietro la galassia (dis)informativa del Cremlino. La missione ufficiale era intervistare Lukashenko, fornirgli un palcoscenico internazionale, preparare i russi a quel che verrà. Sembra che il presidente abbia apprezzato, considerando i sorrisi e gli abbracci immortalati in una serie di foto finali che tutta la Bielorussia ha potuto vedere.КГБ_РБ

In questo contesto la riforma costituzionale che Lukashenko si è detto disposto a considerare sarebbe presentata come una concessione alle opposizioni, dando tempo a Mosca di organizzare partiti e organizzazioni pro-russe in grado di garantirle il controllo del processo e di evitare qualsiasi scivolamento di Minsk in orbita europea e occidentale. Da qui all’integrazione politica ed economica tra le due entità il passo sarebbe relativamente breve, senza bisogno di azioni armate dirette o per procura, sul modello ucraino.

Un’annessione a fuoco lento che deve fare i conti però con tre variabili: la prima è l’imprevedibilità di Lukashenko, che adesso si trova in un vicolo cieco e senza margini di manovra, ma non è detto che accetti di buon grado tutto quel che gli venga imposto: per il momento, nonostante le pesanti interferenze, il KGB e le forze armate sono ancora sotto il suo controllo; la seconda è la resistenza di una popolazione sempre più consapevole dei propri diritti e della propria identità nazionale, che difficilmente accetterà il passaggio da un autoritarismo autoctono a uno imposto dall’esterno; la terza è l’acquiescenza delle democrazie occidentali, su cui Putin fino ad ora ha sostanzialmente potuto contare, ma che il sovrapporsi del caso Navalny con la crisi bielorussa sta mettendo alla prova. È su questi scenari che dovrebbero concentrarsi l’attenzione e lo sforzo diplomatico dell’Unione europea, piuttosto che su improbabili (almeno ad oggi) interventi armati. Non comprendere le reali intenzioni del Cremlino o, peggio, assecondarle significherebbe tradire le speranze di libertà dei bielorussi, che stanno assumendo sulle proprie spalle l’intero peso di una rivoluzione civile che, qualunque sia l’esito, è destinata a rappresentare uno spartiacque nella storia della Bielorussia.

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Insieme alle caratteristiche del regime c’è un altro elemento che accomuna il risveglio bielorusso alle rivoluzioni anti-comuniste dell’89 nell’Europa dell’Est: la (ri)nascita di una nazione, che trova nell’opposizione alla dittatura un obiettivo comune, un fondamento condiviso. Se si analizzano gli ultimi venticinque anni di un Paese rassegnato e ripiegato su se stesso, svuotato di ogni prospettiva politica che non fosse quella ufficiale, bloccato nel tempo, gli ultimi due mesi a Minsk e dintorni rappresentano uno dei ribaltamenti di prospettiva più sbalorditivi della storia contemporanea. La svolta è stata la violenza che ha accolto i primi manifestanti dopo la truffa elettorale, il momento in cui la cittadinanza ha capito che non era più possibile una coesistenza con il potere, una sorta di vita parallela, perché tutti – nessuno escluso – da quel momento sarebbero potuti diventare potenziali vittime della reazione, attivisti, intellettuali, operai, classi medie. E così è stato. Si sottovaluta sempre la natura dei sistemi dittatoriali (autoritari o totalitari che siano); si tende a considerarli attori razionali, senza riflettere sul fatto che in genere vivono di una logica propria, che permette loro di sopravvivere solo fino a quando non viene rivelata: il che avviene quando la società perde la paura e si contrappone a quella forza d’occupazione che è l’apparato repressivo. In quel momento l’equilibrio del ricatto autoritario si rompe.

Non sarà uno sprint ma una maratona, ha fatto notare qualche osservatore, ed effettivamente è difficile prevedere a favore di chi giocherà il tempo: assisteremo al logoramento progressivo dell’autocrazia o prevarrà il puntello di Mosca dove alla fine si deciderà tutto? Lukashenko non molla, si incarica del lavoro sporco, si mostra alla folla fucile in mano ma ha l’orecchio rivolto al Cremlino per ricevere istruzioni. Non ha sotto di sé una struttura di potere articolata a livello territoriale né una base partitica organizzata, le imprese statali e i sindacati ufficiali sono costretti al silenzio ma scioperi e contestazioni ne hanno rivelato l’umore, anche la Chiesa cattolica è sotto attacco, come dimostra il divieto di rientro imposto all’arcivescovo Tadeush Kandrusievich: tutto il suo potere dipende dai servizi di sicurezza di cui è, allo stesso tempo, padrone e ostaggio. E come in un tragico gioco di specchi, questo regime declinante ma violento, a metà fra stagnazione brezneviana e dittatura militare sudamericana, prefigura l’imbarbarimento del grande vicino, prigioniero di un sistema che Putin ha blindato e, forse, condannato a un comune destino di decadenza. A meno che, nel frattempo, non succeda qualcosa anche da quelle parti.

di Enzo Reale