Si avvicina nel disinteresse generale della prima estate post-Covid il referendum sulla riforma costituzionale che taglia il numero dei parlamentari. Anche su questo fronte il governo si presenta disunito e i mezzi di informazione stanno relegando una questione centrale per la nostra democrazia – quella riguardante il rapporto tra rappresentanti e rappresentati – nelle pagine centrali dei quotidiani, tra il profilo Instagram di Elisabetta Canalis e la lotta contro l’allevamento di ostriche di Lina Wertmuller. Ma tant’è…
Il 20 e il 21 settembre si voterà per tagliare 115 senatori e 230 deputati, riducendo le Camere da 915 a 600 rappresentanti. Si tratta di una riforma costituzionale fortemente voluta dal partito di maggioranza relativa al governo, il Movimento 5 Stelle, che ne fa una bandiera della sua azione politica. Il testo è stato approvato da una maggioranza trasversale in Parlamento. Nessun partito intende passare per quello che vorrebbe “mantenere le poltrone”: il lessico politico ai tempi del peronismo chic ci ha regalato questa metafora per descrivere l’attività costituzionalmente fondamentale della rappresentanza degli elettori.
Vi sono comunque delle differenze di fondo tra le scelte dei partiti a Montecitorio e a Palazzo Madama. La Lega ha coerentemente sempre votato a favore del taglio sin dalla prima volta in cui il testo è stato portato in aula. Dei 5 Stelle abbiamo già detto. L’altro giorno, Luigi Di Maio ha pubblicato sui suoi canali social una sua immagine di fronte a un quotidiano incorniciato nel suo ufficio che titolava “Il taglio alla Di Maio”. Il Pd invece è come sempre indeciso a tutto. Nelle prime tre letture in aula ha votato contro definendo il provvedimento “populista”. Poi, una volta entrato nel governo Conte 2, è stato decisivo per l’approvazione finale del testo. Infine, per bocca del suo segretario e di uno degli uomini più vicini a lui, Goffredo Bettini, vorrebbe tirarsi indietro perché la riforma non è accompagnata da una nuova legge elettorale proporzionale che secondo i Dem garantirebbe la stabilità del sistema, fors’anche la sua democraticità.
Quando si affronta una riforma di tale portata bisognerebbe occuparsi ex ante del rapporto tra eletti ed elettori e dei cosiddetti ambiti ottimali di rappresentanza. Se la riforma passasse il rapporto sarebbe di un eletto per ogni 150 mila cittadini, e cioè il rapporto più alto in Europa.
Secondariamente, la riforma sottoposta a referendum non affronta il tema della qualità degli eletti e della vicinanza di essi agli elettori, ma è dettata dalla voglia di mostrare che si risparmiano i soldi degli italiani. Non certo la base ideale per mettere le mani alla Costituzione.
Subordinarla poi a una ulteriore riforma elettorale in senso proporzionale come vorrebbe il Pd appare pura follia. Un sistema proporzionale con uno sbarramento basso porterebbe alla proliferazione dei partiti personali con poteri di ricatto nei confronti dei governi. Ricatti tanto più evidenti quando si abbassano i numeri per garantire la sopravvivenza degli esecutivi. Non ci sarebbe nessuna scelta dei candidati da parte dei cittadini ma liste già pre-confezionate dalle segreterie dei partiti. Men che meno ci sarebbe la scelta del candidato premier. Insomma, sembra un sistema per regalarci non più il Conte 1 o 2, ma il Conte ad infinitum.
Tra l’altro, l’elevato rapporto tra rappresentanti e rappresentati non è nemmeno mitigato da una forte presenza delle autonomie locali, il cui ruolo è sì riconosciuto dall’articolo 5 della Costituzione ma non presenta i tratti di altri sistemi come ad esempio quelli federali. Comuni, Province – cui sono state tolte le assemblee legislative – e Regioni non hanno certo i poteri dei Lander tedeschi o degli Stati nella Costituzione americana. Anzi. Le richieste di autonomia di alcune regioni sono sistematicamente osteggiate da Roma, siano esse giunte a furor di popolo come nel caso di Lombardia e Veneto o da richieste dagli stessi enti territoriali (Emilia-Romagna, Liguria e Campania). Vale la pena rimarcare che il bicameralismo perfetto resterà tale e che il Senato non si trasformerà in una Camera delle Regioni ma manterrà le stesse funzioni che ha oggi equivalenti a quelle della Camera dei deputati. La riforma costituzionale grillina è monca, guidata solo dalla volontà di farsi pubblicità con i rulli di tamburo che seguono alla parola “taglio”, e priva di una visione organica che traghetti il Paese verso una democrazia governante. Il Pd mostra una prevedibile resistenza, ma il suo rimedio è la classica pezza che peggiorerebbe le cose. Coraggio mes amis; tra qualche anno i fautori del federalismo e della legge elettorale maggioritaria torneranno prepotentemente di moda…
di Daniele Meloni