Renzi dice ‘no’ e il PD incassa. Il taglio dei parlamentari senza la contemporanea riforma elettorale conduce a rischi di ulteriori derive autoritarie e a/democratiche
Come da copione. Solo uno sprovveduto poteva illudersi che Matteo Renzi e la sua Italia Viva potessero accettare la riforma elettorale così come il Partito Democratico la propone: con un micidiale sbarramento del 5 per cento, che preclude ai micro-partitini (non solo quello di Renzi, ma anche i movimenti guidati da Carlo Calenda ed Emma Bonino) ogni speranza di rimettere piede a Montecitorio e palazzo Madama.
Ecco perché con il capogruppo alla Camera Ettore Rosato i renziani sbarrano la strada a ogni ipotesi di riforma elettorale prima del referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari fissato per il 20-21 settembre. L’ennesimo scorno per il Partito Democratico, peraltro ampiamente annunciato: quando il 27 luglio scorso proprio Renzi aveva sillabato il suo NO alla calendarizzazione della discussione della riforma.
Rosato cerca di nobilitare il NO del suo micro-partito: «Portare quel testo in Aula, con voti risicati di maggioranza, sarebbe stato un suicidio annunciato e forse voluto: i meccanismi parlamentari del voto segreto l’avrebbero affondata. Inoltre, mi sembra che la priorità del Paese non sia la legge elettorale per il 2023: difficilmente qualcuno convincerà gli italiani che hanno perso il posto di lavoro che noi dobbiamo litigare su questo invece che concentrarci sulle misure per far ripartire l’economia».
In realtà, è quello sbarramento del 5 per cento che rode. Se scendesse al 3, ecco che se ne potrebbe parlare. La contesa con il PD è tutta qui. Il quale PD, a questo punto, non può che cercare soluzioni alternative. Al momento insiste e annuncia che continuerà a chiedere che la discussione della riforma del sistema elettorale avvenga il prima possibile. «La prossima settimana chiederemo di nuovo alla capigruppo la calendarizzazione il prima possibile della legge elettorale in Aula, dopodiché ognuno risponderà politicamente della sua posizione», annuncia Emanuele Fiano. Ma è un arrocco che non porta da nessuna parte.
I vertici del PD hanno elaborato un piano B? Se c’è, al momento lo tengono ben nascosto. A mezza voce in molti sussurrano che lo schema di un proporzionale puro con sbarramento al 5 per cento sia un qualcosa di morente. «L’unica possibilità per tenere in piedi quello schema è che Forza Italia dopo il voto delle regionali si spappoli, e tutta o in parte lo sostenga con i voti in Parlamento», si azzarda.
Calcolo di respiro corto: perché lo scenario autunnale, crisi economica a parte (e sarà invece dominante), e Covid permettendo, comporterà la prevedibile vittoria dei SI al referendum (con conseguente ringalluzzire dello spappolato Movimento 5 Stelle); e una sconfitta PD nel voto amministrativo: il centro-destra, infatti probabilmente si affermerà sia nelle Marche che in Puglia. Difficile che in autunno la riforma elettorale sia in cima all’agenda politica.
Ecco dunque che si tessono mille trame, un labirinto di sussurri e grida nel quale ci si smarrisce. Chi ha tutto da guadagnare in questo maelstrom è il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, da più parti invocato ed evocato come grande tessitore. Lo scenario azzardato: un rapporto più organico tra PD e M5S (o quel che resta), come teorizzato da Goffredo Bettini, gran consigliere di Nicola Zingaretti. Di fatto un bipolarismo, che preveda il premio di maggioranza, a una delle due grandi coalizioni.
Il fatto è che una buona parte del M5S, Luigi Di Maio in testa, vede l’asse con il PD come il fumo sugli occhi. Dunque, tutto in movimento, ma al tempo stesso tutti immobili e ben attenti a non scoprirsi.
Di fatto il PD paga l’errore di avere capovolto la posizione precedente (contraria) sul taglio del Parlamento pur di fare l’accordo di Governo con il M5S, nell’illusione di ottenere, quale contropartita, ulteriori modifiche della Costituzione e una nuova legge elettorale. L’impegno di votare il taglio del Parlamento è stato rispettato, mentre la contropartita è tutta da riscuotere.
Il tentativo di approvare un nuovo testo di legge elettorale almeno in commissione alla Camera prima del referendum è arenato.
All’errore di avere capovolto la propria posizione si aggiunge lo sberleffo di impegni non rispettati. A questo punto solo la vittoria del NO nel referendum del 20-21 settembre potrebbe rimescolare la situazione; ma è improbabile che ciò accada.
Il taglio dei parlamentari senza la contemporanea riforma elettorale rischia di creare pasticci di cui forse solo ora il PD comincia prendere atto.
Per esempio: il Trentino Alto Adige avrebbe sei senatori con poco più di un milione di abitanti, mentre gli italiani all’estero ne avrebbero solo quattro con poco meno di cinque milioni di elettori. Così ci sono regioni che hanno il doppio di abitanti e che avrebbero la metà dei rappresentanti.
Non solo. Si insiste per una legge elettorale che di proporzionale ha solo qualche aspetto: non corregge l’errore strategico che da anni ha via via ridotto la rappresentatività e la forza del Parlamento, fino alla situazione attuale. Si tratta della nomina dall’alto dei parlamentari che resterebbe anche con la nuova legge; con queste norme i cittadini non potrebbero scegliere direttamente il loro rappresentante nel quale riporre fiducia. Resterebbero le liste bloccate e i voti ad un partito o a una coalizione servirebbero a decidere solo quanti parlamentari entrano in Parlamento, non chi entra.
La questione del chi rappresenta chi resterebbe irrisolta, tutto continuerebbe ad essere dipendente dalle scelte delle oligarchie partitocratiche: decidendo l’ordine di lista decidono chi entra in Parlamento, senza alcun rapporto con gli elettori.
In estrema sintesi: meno parlamentari, e un Parlamento indebolito a favore dell’Esecutivo. Un’ulteriore sproporzione a favore del Governo che decide tempi e modi dell’attività parlamentare.
Chi vuole imporre il taglio dei parlamentari apre un vero e proprio vaso di Pandora che può portare a ulteriori derive autoritarie e a/democratiche.
di Valter Vecellio